Archivi tag: Badanti

E mentre miglioro…

E mentre miglioro non posso che pensare alla mamma. Alla persona che ha sofferto più di tutti della mia disabilità. Più di quanto ne abbia sofferto io. Mi viene in mente all’ospedale quando veniva a trovarmi in camera sterile nonostante fossi letteralmente stordito dalla chemioterapia a megadosi che mi serviva per prepararmi dal trapianto di midollo. Veniva in ospedale e le bastava stare lì a guardarmi.

Ho scoperto poi che aveva paura che morissi. E invece no. Sono ancora qui grazie anche alla mamma. Grazie a quello che mi ha insegnato della vita. Dall’umiltà per non credermi onnipotente, alla forza, l’esempio che mi ha sempre dato. La forza di sopportare, la forza e il coraggio di reagire.

Quello che ha sopportato per me, quello che ha fatto per me è incalcolabile. E mi piace l’idea che mi stia guardando con i suoi grandi occhi commossa perché sto migliorando “Non so se mi senti, mamma, né so se quello che mi sta accadendo è merito tuo. Ma questo è per te!”

Leonardo e Carlo: i giganti (parte 2-fine)

Leggi anche: “Leonardo e Carlo: i giganti (parte 1)

Distolgo lo sguardo. Ma solo per un attimo. È troppo familiare. Lo riguardo. Mi sorride. “Cazzo, è proprio uguale a Carlo”. “Oh cazzo… È Carlo!”. Allungo il collo per avvicinare gli occhi. Anche pochi centimetri possono fare la differenza. Formulo le parole “sei tu” con il solo labiale. Mi sorride. È lui. Mentre Leonardo continua il suo monologo penso a Carlo e alla sorpresa che mi sta facendo. Al senso del fatto che sia qui stasera, a 150 km da Reggio Emilia. Non ha senso. È alla terza presentazione del mio libro. Ogni tanto ci lanciamo un’occhiata.

Da quanti anni conosco Carlo? 40. Una vita. Faccio un respiro profondo per riprendermi dalla consapevolezza del tempo che è passato. Da quanto tempo? E la mente corre alla prima pagina del mio libro: “La salsedine che riempie il respiro, il sale che secca la pelle, la sabbia che brucia sotto i piedi… Se chiudo gli occhi e guardo indietro, alla prima immagine ed emozione che ricordo, vede il mare, il movimento incessante delle onde, il ritmo con il quale si infrangevano una dopo l’altra, una nell’altra. L’orizzonte limpido e infinito del Mediterraneo, le sfumature di azzurro che riempivano ogni respiro. Alle mie spalle la spiaggia e, poco più indietro, Bengasi, la seconda città e porto principale della Libia.

Al mio fianco Sami, il mio migliore amico, e poi Alessandro, Anwar, Carlo, Massimo e Ricky. (…). Passavamo ore a correre e saltare tra le onde (…).

Sono i miei primi amici. Carlo c’era già. Ma poi? Poi, c’è sempre stato. Non te lo dava a vedere. Era discreto, Carlo è sempre stato discreto. Ma se c’era una persona sulla quale potevi contare, quella era Carlo. Difficilmente Carlo diceva di “no”. Almeno, le volte che l’ho sentito io sono talmente rare che mi sono chiesto se sapesse pronunciare quella parolina. Carlo è quello che ti aiuta senza che tu glielo chieda. Carlo è quello che ti sorprende. Come mi ha sorpreso quando mi ha chiamato per dirmi che stava organizzando una presentazione del mio libro a Reggio Emilia. La sorpresa più grossa è stata la sua introduzione. Di me ha detto cose che non avrei mai immaginato. Ma la cosa ancora più sorprendente è stata l’emozione con cui leggeva. Mentre lo ascoltavo, mentre lo guardavo pensavo a quanto gli voglio bene e quanto, alle volte, mi è capitato di darlo per scontato. Invece Carlo è un altro gigante. Non te lo dà a vedere. Devi scoprirlo lentamente e te lo devi meritare.

dav

Quando Franco, suo papà, ci ha lasciati, dopo che Carlo l’aveva accudito per un numero incalcolabile di fine settimana, sono andato al funerale con Flavio, un nostro amico dai tempi della Libia. Tornando ripensavamo alla famiglia Coda, agli episodi di vita vissuta con Carlo, Massimo, Marina, Franco e Paola. Flavio interrompe uno dei lunghi silenzi che ci accompagnavano sulla strada del ritorno:

“Carlo è la persona più buona che io conosca”.

“È vero Fla”.

Abbiamo terminato lo spettacolo e mi sono precipitato da Carlo. Ci siamo abbracciati. Poco lontano da noi Stepan mi aspettava. Gli avevo giurato che finita la rappresentazione saremmo tornati a casa. Non avevo intenzione di rompere la promessa.

“Carlo, porca miseria, se tu mi avessi avvisato mi sarei organizzato. Purtroppo devo andare a casa subito”.

“Non è importante Ricky, mi bastava sentirti parlare”.

Questo è Carlo.

La dedica

“Ok Ricky, sono pronto. Dove scrivo?”

Flavio si assesta sulla sedia. Controlla la penna. Funziona. Non gli resta che scrivere la dedica che gli sto per dettare.

Siamo ancora rimbambiti dal sabato prenatalizio. Milano è uggiosa. Caotica. Una giornata da restare “tappati in casa”.

Invece siamo nella hall dell’albergo in piazza Lodi. I Bengasini, i bambini italiani che negli anni 70 erano a Bengasi in Libia pernottano lì. Stasera sono tutti a cena a casa nostra. Tutto è nato alcuni mesi prima da una straordinaria idea di Carlo e di Tamara Budec. Hanno creato un gruppo su Facebook, “Bengasi anni ‘70: io c’ero”. Hanno invitato tutti i Bengasini che conoscevano e che erano usciti a rintracciare. Abbiamo cominciato a scriverci scavando nella memoria. E a settembre eravamo tutti a Milano a incontrarci per la prima volta. Quarant’anni dopo.

… Mentre detto la dedica a Flavio…
… Mentre detto la dedica a Flavio…

“Sulla quinta pagina – indico a Flavio la posizione mentre gira le pagine – si, proprio lì”

“Cosa scrivo?”

“Aspetta che faccio mente locale”. Chiudo gli occhi per concentrarmi il minimo necessario.… Penso a Tamara. Alla bambina che mi piaceva in Libia. Alla donna coraggiosa che avevo incontrato alcuni anni fa su Facebook. Alla sua passione per “badavo in badanti.org” e all’idea che diventasse un libro. A settembre aveva dimenticato la sua copia di “Tutte le fortune” ed era ripartita senza alcuna dedica. Delusa.

“Ok Fla, ci sono. Scrivi la data”

Flavio si china leggermente sul libro aperto e comincia a scrivere.

Intanto rifinisco mentalmente la dedica. Ma…

“Fla, cosa hai scritto?”

“La data”

“… E perché?”

“Perché me l’hai detto tu”

“Sí ma io intendevo la data”

“E io l’ho scritto, Ricky”

“Fla, la data… 3 dicembre 2016”

“Oh cazzo”, Flavio mi guarda con due occhi sbarrati. Si dà prontamente un tono.

“Io pensavo che tu volessi scrivere…”. Non regge. Si rende conto che qualsiasi tentativo di spiegazione è più grottesco del fatto di avere scritto la data, e continua a fissarmi in silenzio. La nostra resistenza è patetica. All’improvviso la quiete della hall è squarciata da una risata fragorosa.Tamara è ripartita con una dedica e qualcosa da raccontare

La casa (1)

Una domenica mattina.

“Guarda, questo è lo Zettel’z 5 di Ingo Maurer. È il mio lampadario preferito”

Stiamo cercando casa e Nelly sta già pensando all’arredamento. Alzo gli occhi distrattamente dal libro e osservo altrettanto distrattamente.

“Non so dove andremo a vivere, ma questo sarà il lampadario” mi rassicura Nelly entusiasta mentre gira la pagina della rivista.

———————————-

“Foorse, l’abbiamo trovata”.

La voce di Nelly al telefono è più vellutata del solito. Il tono è quello delle grandi occasioni. Quello degli annunci. Anche se sta cercando di non svelare nulla quel “forse” allungato la tradisce.

“Sei convinta?” le chiedo quasi a bruciapelo.

“Penso di sì?”

“Mon amour, sei convinta?” Insisto.

“Sì”.

“Allora bloccala, dai l’acconto”

Non è importante che io veda la casa. Mi fido di Nelly. Ma soprattutto per me “casa” è dove c’è lei. Tutto il resto è geografia.

Nelly, io, Cookie e Zettel abbiamo trovato il nostro tetto sopra la testa.

(Giugno 2002, circa)

Ricomincio a scrivere 2019

Otto anni fa cominciavo a scrivere i primi post di questo blog. Era il terzo tentativo. La terza partenza verso un traguardo che si chiamava libro. Il libro non era importante. Era la mia carota. Era lì. A segnare il passo. Se avessi pubblicato un libro sarebbe stato un trionfo. Non ne fosse nato un libro, mi sarei divertito comunque. Era il 18 dicembre del 2011 e “Tutte le fortune” era un’utopia.

Il 10 novembre 2015, le librerie accoglievano “Tutte le fortune” sui loro scaffali. Un’emozione indescrivibile. Ripensando rapidamente a cosa è successo dopo mi vengono in mente questi ricordi.

Quando presentavo il libro spesso mi chiedevano perché mai avessi deciso di scrivere la mia storia. Regolata la questione dell’ego, perché è inutile che lo nascondiamo, chi scrive della propria vita lo fa anche per soddisfarlo, ho sempre pensato che ne sarebbe valsa la pena se almeno una persona avesse trovato nelle mie pagine uno spunto per risolvere un suo problema o reagire a una avversità.

L’ho trovata. Non voglio raccontare di lei perché ha passato una vita difficile ma quando alla fine di quel confronto con gli studenti di un liceo mi ha detto “fino ieri ero convinta di non farcela nella vita. Oggi so che ce la farò”, ho sentito tutti i tasselli scivolare comodamente al loro posto. Il libro aveva trovato il suo senso.

Scrivere un libro ti dona la gente. Le persone nuove. Persone che pensavi di avere perso, una fetta di parentela.

Vedo decine di volti. Tra questi, come posso non ricordare Antonio Roagna che ha voluto conoscermi. Lo ha fatto con una discrezione e una signorilità uniche, e in più mi ha organizzato una straordinaria presentazione ad Alba. Come posso non ricordare Carlo Coda che ogni volta che poteva assisteva a una presentazione oltre ad aver organizzato un incontro bellissimo a Reggio Emilia. Come posso non ricordare Luigi Carulli che indegnamente mi considera l’autore del libro più bello del mondo in organizzato una presentazione a Cremona facendo incontrare vecchi amici. Come posso non ricordare Leonardo Cardo. Quando l’ho visto arrivare era piccolo piccolo. Poi l’ho conosciuto e mi sono trovato al cospetto di un gigante. Insieme, grazie al suo entusiasmo, abbiamo fatto delle presentazioni epiche. Quasi degli spettacoli.

Come posso non ricordare la generosità di Legambiente che mi ha concesso di fare la prima presentazione nel corso del congresso di Milano del 2015. Ma soprattutto come posso non ricordare Rossella Muroni, entrata al congresso come direttore e uscita come presidente. Nel congresso che per lei aveva significati ed emozioni profondi, si è offerta di presentare il libro con me. E lo ha fatto dopo un’intera giornata a presiedere il congresso, quindi a moderare un convegno. Quando l’ho vista arrivare era esausta. Avrebbe potuto tirarsi indietro. L’avrei capita. Non lo ha fatto. E la presentazione è stata straordinaria per merito suo.

Oggi riparto. Non so dove arriverò. Di cose da raccontare ne ho ancora tante.

Tiburtina e l’elevatore: nascita di un’amicizia

Le solite, inutili, vuote parole rompono il silenzio. Hanno vita propria. Si animano e riempiono gli spazi che fatichiamo a sopportare: i silenzi.

“È stato a Roma per lavoro dotto’?”

“Si”

“Èannato tutto bene?”. Come se gliene fregasse qualcosa…

“Si”

“Caldo bestiale in questi giorni…”

“Nun me lo dica dotto’… Un’altra giornata così e moro”. Come se me ne fregasse qualcosa…

Continuiamo a fissare un punto imprecisato lungo le rotaie che accompagneranno Italo al binario 11. Ognuno in compagnia dei fatti suoi.

Rompo il silenzio.

“Come mai alla Stazione Centrale di Milano e Roma Termini l’elevatore è elettrico e qui a Tiburtina è a manovella?”

Il mio interlocutore, un addetto all’assistenza disabili si infiamma.

“Dotto’, che je devo dì”. E fa una pausa. Poi, si lancia: “Per costruire sta stazione hanno chiamato gli arcchitttettti, gli inggegnneri … i ppremi Nnobbel… e se so dimenticati ‘na presa di corente sul binario”.

Lo guardo. Alzo il sopracciglio. E ci facciamo una risata.

“Buon viaggio dotto’”

“Chiamami Ricky”

“Me chiami Maurizio”.

Leggi anche: Finché scegli uno c’è la salute…

tiburtina

“Io adoro le rotelle…”

E dopo due anni di collaborazione con Aida Partners come direttore dell’Area Sostenibilità & Economia Civile finalmente abbiamo il nostro ufficio! Il trasloco è veloce e indolore. Dopo due anni di pellegrinaggio quotidiano alla ricerca di una postazione libera o di una quotidiana negoziazione con Gabriella, la segretaria di direzione, per ottenere una sala, tutti i nostri documenti sono digitali. Archiviati più o meno ordinatamente nei nostri portatili.

Lunedì mattina entriamo nella nostra stanza e prendiamo le misure. Riempiamo la libreria. Assaltiamo la lavagna per dare ordine ai lavori. Ci dividiamo le postazioni. Beatrice e io ci insediamo in quelle principali. Carlo, il nostro assistente, giovanissimo, brillante, appassionato e di una sensibilità antica, di quelle che sono disposte a subire qualsiasi cosa pur di non creare problemi agli altri, viene smistato nella postazione dell’assistente. Bassa. Stretta. Le gambe chilometriche di Carlo faticano a trovare l’assetto giusto. Sono salvate da una seggiola hi-tech, espropriata dalla sala riunioni corporate, con il telaio in acciaio e il corpo in tessuto “avvolgente”. Sagomata. Molleggiata. Carlo è comodissimo.

Ma non ha fatto i conti con Gabriella. Irrompe in stanza spingendo una seggiola da ufficio simil Ikea con le rotelle sghembe.

“Questa è la tua sedia Carlo”. La spiegazione di Gabriella è decisa. Non ammette repliche.

Carlo cambia. Le ginocchia si assestano sotto il mento. Le braccia devono trovare la strada per la tastiera.

“Sei sicuro di essere comodo?”. Il lato materno di Gabriella non resiste.

“Sono molto comodo, grazie”.

“Ma sei sicuro?”

Beatrice e io osserviamo la scena perplessi.

“Guarda che se sei scomodo, ti rimetto questa”, insiste Gabriella molleggiando la seggiola hi tech.

“Per nulla Gabriella, ti ringrazio. Sono comodissimo”.

Intervengo. “Gabriella, lasciagli la seggiola hi tech. Non ti dirà mai che scomodo!”

“Scusa Carlo, pensavo che preferissi questa con le rotelle. Io adoro le sedie con le rotelle. Metterei rotelle dappertutto. Anche sotto i mobili”.

“No, è che…”.

Interrompo Carlo.

“Anch’io ho sempre adorato le rotelle… ma evidentemente devo aver sbagliato qualcosa…”

Ospite al convegno “Sclerosi multipla e narrazione” per raccontare la mia storia di paziente.

Quando il professor Comi convoca non ci sono alternative: si risponde presente. Tutto è cominciato sei mesi fa quando ho risposto a una telefonata di un numero sconosciuto. Dall’altro capo della comunicazione, una voce di donna mi invitava a partecipare al convegno sottolineando che il professor Comi aveva detto che non potevo non esserci. E così ci siamo trovati entrambi nella stessa sala: lui a presiedere il convegno, io a raccontarmi.

Naturalmente ho raccontato la nostra storia.

 

RINCORRERE ITALO TRENO (fine)

Prima leggi: “RINCORRERE ITALO TRENO” (episodio 1)

Prima leggi: “TI PORTO IN VACANZA” – Paros

 

“Ma come cazzo fai a non essere preoccupato Ricky! Non arriveremo in tempo e tu te ne stai lì a leggere!”

L’ansia lo stava divorando. E Ugo me la rovesciava addosso a secchiate. Nell’ultima mezz’ora era la terza volta che sbottava. Non riusciva a trattenersi.

“Come cazzo fai a essere così tranquillo?!”.

“Come faccio? Perché metteremo il nostro culo su quel cazzo di aereo…”. In realtà ero tranquillo perché non avevamo il controllo di nulla. Dovevamo solo aspettare e sperare.

Avevo risposto senza alzare gli occhi da “I pilastri della terra”. Il romanzo di Ken Follet mi stava facendo compagnia da quando ci eravamo imbarcati al porto di Parikia, a Paros. Il traghetto era salpato con quattro ore di ritardo. Un vento infernale stava spazzando le Cicladi rallentando tutto ciò che resisteva sopra il pelo dell’acqua. All’aeroporto di Mykonos, alle 13:00, il volo che ci avrebbe riportati a casa dopo la vacanza sarebbe decollato. Pensare di prenderlo era una follia. Il traghetto arrancava tra il mare agitato, gli schianti della prua contro le onde che ci ricordavano quanto stavamo navigando lentamente. La veemenza degli schianti era tale che schizzi di Mediterraneo ci raggiungevano fin sul quinto ponte di poppa. Appiccicaticcio di acqua salmastra continuavo a leggere. Gli schizzi in faccia mi lasciavano indifferente. “Metteremo il culo su quel cazzo di aereo”, dissi sottovoce. “Metteremo il culo su quel cazzo di aereo”, ripetei sempre sottovoce. Il mormorio stava diventando un mantra.

 

“Metteremo il nostro culo su quel cazzo di treno”. Ripeto il mantra mentre le ruote anteriori della carrozzina vibrano all’impazzata. Succede sempre quando Stepan la spinge seggiola a rotelle correndo.

“Piano Stepan”

Stepan rallenta il tempo necessario a far rilassare le ruotine. Poi riprende.

La stazione di Rogoredo si avvicina sempre più rapidamente. Abbiamo parcheggiato in via Giovanni Battista Cassinis alle 9:20. A mezzo chilometro dalla destinazione. I mastodonti verdi ci hanno perseguitato fino all’ultimo. Quattro minuti e Italo lascerà anche Rogoredo. Pensare di prenderlo in tempo è una follia.

 

“Ricky, non ce la faremo…”

“Corri Stepan”

Ci precipitiamo nella stazione. Mi guardo in giro mentre Stepan continua a spingere a passo veloce.

“Rallenta Stepan”.

“Perché?”

“Il binario…”. E guardo il tabellone delle partenze alla nostra sinistra.

“Binario 1 Stepan”

“Dov’è l’ascensore?”

“Qui non c’è Stepan”.

“Come facciamo?”

Come cazzo vuoi fare Stepan? “A piedi Stepan”.

 

Osservo la scala che porta al tunnel che collega i binari. Una rampa. Un pianerottolo. Una rampa fino al corridoio. Sui lati un corrimano nero.

“Stepan, prendi il trolley, portalo in fondo alle scale all’angolo con il corridoio, e corri su a tutta velocità”

Stepan trotterella giù per la scala. Arriva in fondo. Appoggia il trolley. Si volta verso i gradini e pianta uno scatto furioso. Sembra stia scappando da una bomba. Come farebbe un terrorista. Un terrorista?! Per un attimo immagino due carabinieri che girano l’angolo, osservano la scena, e lanciano l’allarme. Sorrido, ma neanche tanto.

“Stepan, facciamo in fretta! Quel trolley deve stare là il meno possibile… Sembra una bomba”.

Stepan mi strappa dalla carrozzina. Divoriamo i gradini. E la carrozzina ci segue grazie alla generosità di un passeggero che si è offerto di portarla in fondo alla rampa. Mi ci siedo. Stepan afferra le maniglie e si lancia verso il fondo del tunnel.

Binario 1. Non abbiamo il tempo di leggere nulla. Questa volta appoggiamo il trolley sul pianerottolo a metà della rampa. Tenuto più vicino, assomiglia meno ad una bomba Stepan mi strappa nuovamente dalla carrozzina. Dietro di noi c’è il passeggero che ci ha seguiti: “tranquilli, alla carrozzina ci penso io”.

Arriviamo in cima alla rampa. Il fiato mi manca. La bocca spalancata cerca di inalare tutta l’aria possibile. Intorno, una folla di passeggeri in attesa. Sono le 9:31. “Cazzo, abbiamo sbagliato binario Stepan…”.

Un fischio mi zittisce. “Treno Italo delle 9:20 in arrivo al Binario 1. Ferma a Roma Tiburtina, Roma Termini,…”. L’annuncio che volevamo sentire. Alla nostra destra, la motrice del treno ad alta velocità bordeaux fa capolino.

“Metteremo il culo su quel cazzo di treno. Cazzo Ricky, funziona!”.

 

Novembre 2016

rifiuti

“Porc … la carr…”

Stepan ripete meccanicamente i gesti che compie da cinque anni. Quasi sei. Apre il cancello del nostro cortile. Entra con la macchina. La parcheggia. Scende. Apre il bagagliaio. Poi, apre la mia portiera. Mi trasferisco sulla carrozzina. Entriamo in casa.

Mezz’ora prima siamo usciti da Aida ripetendo altri gesti meccanici. Mi aiuta ad alzarmi dalla carrozzina e scendere i sei gradini nel cortile del condominio. Mi appoggia in macchina.

Arrivati a casa lottando con il traffico, esegue la routine fino all’apertura della mia portiera. La procedura si interrompe, mi sta guardando con un sorriso stirato. Le labbra increspate. Gli occhi che guizzano da un lato all’altro come se cercassero una via di fuga. Deglutisce rumorosamente.

“Ricky, dobbiamo tornare in Aida…”. Lo dice con lo spirito del condannato aspettandosi che si scateni un uragano.

“Cazzo – penso – il cellul…”.

Non faccio in tempo a finire che Stepan mi stende. “Mi sono dimenticato la carrozzina”.

“Questo fine settimana pubblichi un post sul blog, me lo merito”.

……

Dopo cena, al telefono con Rossella.

“… e così mi dice che si è dimenticato la carrozzina”. Concludo ridendo e spiegando che è una settimana che lavora come un dannato. Per questo non ho intenzione di pubblicare nulla sul blog.

“Beh Ricky, poteva capitare di peggio. Poteva dimenticare te!”

Decido di scrivere il post.

 

17 febbraio 2017

dimenticarsi