Archivi categoria: Episodi

La dedica

“Ok Ricky, sono pronto. Dove scrivo?”

Flavio si assesta sulla sedia. Controlla la penna. Funziona. Non gli resta che scrivere la dedica che gli sto per dettare.

Siamo ancora rimbambiti dal sabato prenatalizio. Milano è uggiosa. Caotica. Una giornata da restare “tappati in casa”.

Invece siamo nella hall dell’albergo in piazza Lodi. I Bengasini, i bambini italiani che negli anni 70 erano a Bengasi in Libia pernottano lì. Stasera sono tutti a cena a casa nostra. Tutto è nato alcuni mesi prima da una straordinaria idea di Carlo e di Tamara Budec. Hanno creato un gruppo su Facebook, “Bengasi anni ‘70: io c’ero”. Hanno invitato tutti i Bengasini che conoscevano e che erano usciti a rintracciare. Abbiamo cominciato a scriverci scavando nella memoria. E a settembre eravamo tutti a Milano a incontrarci per la prima volta. Quarant’anni dopo.

… Mentre detto la dedica a Flavio…
… Mentre detto la dedica a Flavio…

“Sulla quinta pagina – indico a Flavio la posizione mentre gira le pagine – si, proprio lì”

“Cosa scrivo?”

“Aspetta che faccio mente locale”. Chiudo gli occhi per concentrarmi il minimo necessario.… Penso a Tamara. Alla bambina che mi piaceva in Libia. Alla donna coraggiosa che avevo incontrato alcuni anni fa su Facebook. Alla sua passione per “badavo in badanti.org” e all’idea che diventasse un libro. A settembre aveva dimenticato la sua copia di “Tutte le fortune” ed era ripartita senza alcuna dedica. Delusa.

“Ok Fla, ci sono. Scrivi la data”

Flavio si china leggermente sul libro aperto e comincia a scrivere.

Intanto rifinisco mentalmente la dedica. Ma…

“Fla, cosa hai scritto?”

“La data”

“… E perché?”

“Perché me l’hai detto tu”

“Sí ma io intendevo la data”

“E io l’ho scritto, Ricky”

“Fla, la data… 3 dicembre 2016”

“Oh cazzo”, Flavio mi guarda con due occhi sbarrati. Si dà prontamente un tono.

“Io pensavo che tu volessi scrivere…”. Non regge. Si rende conto che qualsiasi tentativo di spiegazione è più grottesco del fatto di avere scritto la data, e continua a fissarmi in silenzio. La nostra resistenza è patetica. All’improvviso la quiete della hall è squarciata da una risata fragorosa.Tamara è ripartita con una dedica e qualcosa da raccontare

MALINTESI PERICOLOSI

L’orologio sul cruscotto segna “quasi mezzanotte”. La notte è uggiosa, malinconica come solo le notti milanesi di novembre sanno essere. Sto tornando a casa. Ho appena lasciato alle mie spalle la stazione Garibaldi. Mi avvicino al semaforo. Verde. Giallo. Rosso. Mi fermo ordinatamente sulla linea dello stop all’incrocio tra viale Sturzo e via Melchiorre Gioia. Mentre aspetto il verde abbandono le briglie della mente che si lascia trasportare dal susseguirsi dei pensieri. Sarà per la cena a base di stinco di maiale, sarà per l’ora, sarà per tutte e due ma mi sembra di sprofondare in una specie di rilassamento pre trance.

Il colpo di clacson mi riporta violentemente alla realtà. Lungo e insistito, da sfondarmi un timpano. Alzo gli occhi verso il semaforo. Verde. Nello specchietto retrovisore scorgo una Fiat Ritmo scura. Il conducente che mi urla di andare. Alzo la mano destra in segno di scuse. Inserisco la prima e imbocco viale Liberazione.
Mentre mi avvicino a via Galileo Galilei guardo distrattamente l’area ex Varesine alla mia destra mentre la memoria ripesca i ricordi di quando adolescente venivo quì al Luna Park. La Ritmo scura mi passa sulla destra. Mi affianca. E per la seconda volta in poche decine di metri mi riporta alla realtà: il conducente sta urlando come un ossesso. Sta urlando a me. La giugulare gonfia. Il viso rosso e deturpato dalla rabbia. La bocca che schizza saliva.
Non capisco. Cerco, nel limite del possibile, di interpretare il suo labiale. “Bastardo. Figlio di puttana. Fermati che ti faccio un culo così”. Continuo a non capire. Passo sul lato del Principe di Savoia. Attraverso piazza duca d’Aosta. Entro in viale Tunisia. Per fortuna tutti i semafori sono verdi. La Ritmo scura continua a seguirmi. Quando può mi affianca. E mi minaccia. Continuo a non capire. Faccio gesti condiscendenti. Affondo la testa nelle spalle come per chiedere cosa ho fatto. Il conducente si carica di nuova incazzatura.
Comincio a preoccuparmi delle conseguenze dell’inseguimento. Le conseguenze sono evidenti. L’uomo alla guida è grosso e massiccio. Se mi prende mi smonta. Un osso alla volta. All’incrocio con corso Buenos Aires giro a destra. Destinazione questura. Mi fermerò e spiegherò al piantone cosa sta accadendo. Sperando che sia un deterrente. La Ritmo scura non molla. Il semaforo in Porta Venezia è verde. Accelero controllando nello specchietto. Improvvisamente, come se mi avesse letto nel pensiero, il mio inseguitore desiste. La freccia sul lato destro della Ritmo lampeggia e prende per i bastioni di Porta Venezia. Arrivo in piazza San Babila. Sono solo e sollevato. La Ritmo è proprio sparita.
Torno verso Milano Due cercando di comprendere l’accaduto. Ricostruisco gli eventi. Il semaforo rosso di via Melchiorre Gioia. Il colpo di clacson di quello che sarebbe diventato una minaccia. “Non posso credere che sia tutto successo perché non sono scattato al verde “. Lo dico ad alta voce per farmi compagnia. Continuo a ricostruire. Il gesto di scuse. L’inserimento della prima marcia. La partenza. Proprio non…. Un sospetto si insinua velocemente: il gesto di scuse. Lo ripeto. Infatti! È stato il gesto!
La mano destra alzata. Tutte le dita stese tranne due: il medio e l’anulare. Provo a stenderle. Ci riesco a fatica. La CIDP sta progredendo e i muscoli estensori delle dita si stanno atrofizzando. Ho alzato la mano per scusarmi, invece gli ho mostrato le corna!
(1995, circa)

GRILLO E L’ESAME DI PROGRAMMAZIONE E CONTROLLO

Ogni tanto lo si incrocia nei corridoi della Bocconi. Non è molto alto. Anzi, è decisamente basso. Occhi chiari e gelidi. Volto rugoso. La calvizie che si fa largo. La bocca disegna un ghigno, un quasi-sorriso mai diverso. Passo lento e autoritario. Il dottor Grillo non cammina. Procede. Nel suo abito grigio. Il Loden appoggiato sulle spalle. Due assistenti ai lati. I suoi pretoriani. Così li abbiamo soprannominati. Il dottor Grillo dirige l’ISU ed è una potenza. La mitologia accademica lo racconta come uno sbrana studenti. Quando lo si incrocia nei corridoi si abbassa lo sguardo e ci si allontana rapidamente con un brivido di inquietudine come compagno di fuga.
Rientro dopo una giornata di studio in biblioteca.

“Riccardo, vieni su”. Papà mi chiama dal suo studio sull’attico.
Scatto. Arrivo. Ci salutiamo.
“Ha chiamato un certo Grillo della Bocconi, vuole vederti domani mattina. Mi ha chiesto come mai sei arrivato al quarto fuori corso e gli ho spiegato delle tue mani”.
Grillo che si preoccupa per gli studenti è roba da fantascienza. Sono curioso e inquieto.

E curioso con il brivido di inquietudine mi presento all’ISU. Entro in “punta di piedi”, come per rendermi invisibile. Mi presento. E mi fanno passare subito. Entro in una stanza piccola. Sobria. Arredamento austero stile “Mondo Office”. Gli scaffali di compensato bianco affollati da libri, faldoni e scatole. Grillo è seduto dietro la scrivania al telefono. Mi pianta gli occhi addosso e mi guida verso la poltroncina sotto la finestra. Mi siedo e aspetto.
Finita la telefonata, Grillo appoggia la cornetta con un gesto nervoso. Si volta verso di me e mi fissa a lungo. In silenzio. Il brivido mi attanaglia.
Poi parla.

“Ecco il grand’uomo. Quello che pensa di farcela da solo”.
Sono interdetto. Non poteva esserci esordio peggiore. Mi sta sfottendo e rimproverando. Il brivido arriva allo stomaco. Dopo una pausa Grillo si lancia.
“Io so cosa pensate voi stronzi di me. Che sono qui per rompervi i coglioni, quasi per il gusto di farlo. Io ho dedicato la vita a questa università. Mi sono laureato quì e non me ne sono più andato. Cazzo. Io sono qui per voi coglioni. A Natale, se uno stronzo come te aveva bisogno di me per risolvere un problema, entrava da quella cazzo di porta e mi trovava su questa cazzo di poltrona”.
La tensione si sta sciogliendo. Grillo sta trasudando passione.
“Lavoro tutto il giorno come uno stronzo per voi coglioni – continua Grillo, sempre più infervorato – E quando ho un momento di pausa sai cosa faccio? Metto una mano in quella scatola e tiro fuori una scheda di un deficiente fuori corso. Sai cosa faccio dopo? Gli rompo i coglioni. Lo metto in croce perché devo capire perché è fuori corso. Ieri mi è capitata la tua scheda e mi sono detto di romperti i coglioni. La prima cosa che faccio sempre è avvisare casa perché nella stragrande maggioranza dei casi i vostri genitori non sanno a che punto siete. Ho cercato tuo padre che mi ha spiegato della tua salute e delle tue mani e che fai fatica a scrivere. E del problema dello scritto di programmazione e controllo. Bene, il fatto è semplice. Fai fatica a scrivere. Non fai lo scritto”.
“Guardi che non voglio trattamenti di riguardo. Mi basta avere mezz’ora in più”.
“Lo vedi che sei proprio coglione. Se fai fatica a scrivere, non fai lo scritto. E basta”.
La decisione è perentoria. Grillo si allunga verso il telefono per chiamare il capo dell’istituto di programmazione e controllo. Si sono laureati insieme. Pochi convenevoli e poi dritto al punto.
“… senti, c’è uno studente che ha un grave problema. Non può dare gli esami scritti, un caso umano. Te lo mando subito lì che ti spiega. Aiutiamolo”.

Sul “caso umano” avevo azzardato un “non esageriamo” che Grillo aveva liquidato alzando gli occhi al cielo e pensando a quanto fossi coglione.
“Bene, questo è sistemato. Poi cosa devi dare?”

“Matematica”.
” Passa l’orale di programmazione e controllo e torna da me”.
Mi accompagna alla porta e mi saluta con un incoraggiante “non fare il pirla”.

Venti giorni dopo passo l’esame di programmazione e controllo. Sono felice con un retrogusto leggermente amaro. Ho conosciuto un uomo straordinario per la sua passione incondizionata per i “suoi” studenti. Ho constatato con amarezza quanto i pregiudizi possono impoverirci. Da quel giorno, ogni volta che ho potuto, ho cercato di raccontare la bellezza di quell’uomo con il loden che ogni tanto si incrocia nei corridoi della Bocconi. E che il ghigno è un sorriso di compiacimento perché sta camminando tra i “suoi” studenti.
(1990)

L’UFFICIO, LO ZIP E LA PIPÌ

Arriva il momento in cui la CIDP mi presenta il primo conto: la debolezza delle dita. Comincio così a perdere i primi automatismi. E devo escogitare strategie alternative. Alcune sono immediate, come afferrare il bicchiere con due mani. In alcuni casi non esistono. Soprattutto quando non riesco più a compiere i movimenti fini come allacciare i bottoni o tirare su lo zip dei pantaloni. E questo è un problema quando vado in bagno. In un modo o nell’altro riesco a slacciare i pantaloni. Ma quando ho finito ho bisogno d’aiuto per allacciare i pantaloni e tirare su lo zip.

Il problema si fa serio quando comincio a lavorare. Non c’è la confidenza per chiedere a chiunque di accompagnarmi in bagno, ad aspettare fuori ed entrare per chiudere i pantaloni. In MGD, il mioprimo ufficio, la soluzione è inaspettata. Dopo pochi giorni inizio una relazione con Guendalina. È la figlia dei signori Duncan e lavoriamo insieme. Mi aiuta lei. L’ambiente piccolo e familiare rende tutto più semplice.
Dopo MGD e alcuni mesi sabbaticiarriva la proposta di Dow Jones. Il primo giorno entro nella sede di via Amedei. Arrivo al banco della reception. Un fulmine mi colpisce. Come faccio con il bagno? Semplice. Non ci vado. Non tocco goccia d’acqua. Me ne dimentico proprio, sia dell’acqua che della pipì. Sono le nove.
La giornata finisce alle 19:30. Esco. Prendo la macchina, e torno verso casa. Non c’è molto traffico. In venti minuti sono a casa. Esco dall’ascensore. E mentre suono il campanello ho la sensazione di esplodere. Un riflesso condizionato. La tranquillità di casa sveglia improvvisamente la vescica. La porta non si apre. La pressione aumenta vertiginosamente. Mi attacco al campanello.
La porta si apre. Finalmente. La mamma sull’uscio mi saluta con il sorriso delle grandi occasioni.

“Ciao! Come è andata?”
Non le do il tempo di finire. La spingo di lato e irrompo in casa. Corro verso il bagno. La vescica sta per cedere.
“Seguimi”.
Arriviamo in bagno. Sono salvo.

Secondo giorno in Dow Jones. Lavoro tutto il giorno senza fermarmi. Non bevo. Non vado in bagno. Arrivo a casa più tardi. Mi attacco al campanello. La porta si spalanca. La mamma che ha capito tutto, si è nascosta dietro. Corro verso il bagno con la mamma a ruota. Sono salvo anche questa volta.
Continuerò così per un anno e mezzo.
(1994, circa)

IL DITO … ovvero, piccoli imprevisti, piccoli segnali.

Il dolore è allucinante. Lancinante. La sensazione netta dello strappo. Del distacco. Anzi, dello sradicamento. Un dolore mai provato prima. Per di più improvviso. Talmente acuto e improvviso da mozzarmi il fiato. Per un istante vedo, come nella migliore tradizione, le stelle, tutte le galassie. Anzi, vedo il big bang. Una metafora più appropriata per descrivere la miscela dirompente di dolore e sorpresa. Dal profondo della mia gola sento partire l’urlo. Gli occhi spalancati. Gonfi. L’urlo arriva in bocca. È sul punto di esplodere. Ma viene soffocato dal panino meraviglioso che ho appena addentato.
Sono al bar di piazza Lodi durante la pausa pranzo di una tranquilla giornata di lavoro in MGD. Guendalina e io abbiamo deciso di concederci un pranzo frugale fuori dall’ufficio. Per rompere il ritmo. Per chiacchierare un po’. Da soli. Entrando ho ordinato un panino: pane francese, mozzarella di bufala e prosciutto crudo al coltello. Il prosciutto è straordinario. Entrando nel bar il suo profumo mi ha guidato fino al bancone. Era lì. Quasi ad aspettarmi. Rosso, dolce, la parte finale. La più saporita.
Il cameriere ha appena appoggiato i piatti sul tavolino. Guendalina prende il mio panino e sistema il tovagliolo. Lo stato attuale delle mani non mi permette di fare movimenti fini come sistemare un tovagliolo di carta. Ma un panino riesco ancora a gestirlo egregiamente. Basta che lo tenga con due mani. Lo afferro saldamente. Il pane è perfetto, leggermente tiepido. Portandolo verso la bocca pregusto il primo boccone. Lo morsicherò lentamente. E lentamente lo morsico. La crosta croccante si spezza. La mollica tiepida. La bufala fresca e morbida. Il prosciutto delicato e sottile. No. Non è sottile. Almeno una fetta deve essere piuttosto spessa. Tanto spessa da bloccare gli incisivi. E da interrompere lo stato di estasi culinaria nella quale mi stavo calando.
Istintivamente, rilasso leggermente i muscoli della mandibola e li contraggo con forza. Devo spezzare la resistenza della fetta di prosciutto. Un colpo secco mentre con le mani torco il panino verso sinistra. Per staccare tutto, subito. Voglio il boccone.
Il dolore è allucinante. Lancinante. La sensazione dello sradicamento. Ho provato tantissimo dolore in molte occasioni. Un dolore simile al dito e in assoluto non l’ho mai provato. Dito? Cosa ci fa l’indice della mia mano destra in bocca in insieme al panino? Perché non l’ho sentito al primo, leggero tentativo?
 Guardo Guendalina che ha appena capito. E sta goffamente trattenendo una risata. Il risvolto comico prende il sopravvento. Allontanano il dito dai denti. Lo osservo attentamente mentre gusto il boccone. Rido. Mentre il dito mi osserva.
Il dito indice della mano destra. Quello che non mi permetteva di abbattere l’elicottero al gioco nelBaby Bar quando ancora non sapevo nulla della mia malattia. Quando tutto stava per incominciare. Metaforicamente mi sento come se lo avessi punito per le tante partite perse. Meno metaforicamente il dito mi ha richiamato: “non ti sembrerà grave – dice – ma se non mi senti quando stai per morsicarmi, non dimenticarti che la questione è seria”.
Tutti gli eventi nascondono un significato. Anche quelli più piccoli. Sta a noi saperlo cogliere. Il dito mi ha aveva appena richiamato all’ordine per la seconda volta.
(marzo 1992, circa)

LEGGI ANCHE: LAVORO E DISABILITÀ (parte 2) … incontri che hanno fatto la differenza. Mr. e Mrs. Duncan

PICCOLI ACCORGIMENTI (EP. 1)

Ho cominciato a bere il caffè in ufficio. Durante la pausa pranzo avevo il mio rito. Seduto alla scrivania, dopo avere mangiato i panini preparati dalla signora Duncan, aspettavo l’arrivo del bicchierino. Mezzo bicchierino di caffè. Due bustine di zucchero. Guai a mescolare. Il caffè mi piace così. Il primo sorso amaro. Amarissimo. Secco e liquido. Poi, lento e inarrestabile, arriva il dolce mentre la consistenza diventa sempre più densa. È la lunga attesa prima della apoteosi: lo zucchero all’aroma di caffè che invade delicatamente la bocca e prende possesso delle papille gustative. Adoro questo rito di passaggio. Dall’amaro al dolce estremo. L’esaltazione delle differenze. La celebrazione del cambiamento.
Anche Noelle, il cane di Guendalina, straordinario incrocio tra un pastore belga e un pastore tedesco, adora il mio caffè. Ha imparato ad attendere con pazienza il compimento del rito. Poi si insinua sotto la scrivania fino al cestino. Afferra il bicchierino con la bocca. Lo porta nell’angolo dell’ufficio. Lo apre in due. E fa razzia del residuo di zucchero.
Sto peggiorando lentamente. Inesorabilmente. Cammino. Ma comincio a zoppicare leggermente. Le dita della mano destra, la mia mano, danno chiari segni di inutilità. Il bicchierino è lì. Sulla scrivania davanti a me. Sta aspettando. Anche Noelle sta aspettando. Devo riuscire a prendere quel caffè da solo. Provo. Rischio il disastro. Guardo il bicchierino. Che continua ad aspettare. Noelle perde la pazienza. Sbuffa. E va a caccia di bicchierini negli altri cestini dell’ufficio. Riprovo. Il disastro è dietro l’angolo. Ok. Ci vuole buon senso. Meglio chiamare qualcuno che mi tenga il bicchierino.
La caccia di Noelle è stata fruttuosa. Entra nel mio ufficio trottando verso il suo angolo. Il bicchierino del caffè in bocca. In bocca. In bocca! È un attimo. In un istante salta lo schema mentale. Quello del bicchierino preso con la mano. Posso usare la bocca. Mi piego verso il bicchierino. Lo afferro con i denti. E che il rito abbia inizio.
Sono passati quasi vent’anni. Continuo a prendere il bicchierino con la bocca.
Una cagnolina mi ha insegnato che le nostre abitudini sono i nostri limiti.
(1994, circa)