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Leonardo e Carlo: i giganti (parte 2-fine)

Leggi anche: “Leonardo e Carlo: i giganti (parte 1)

Distolgo lo sguardo. Ma solo per un attimo. È troppo familiare. Lo riguardo. Mi sorride. “Cazzo, è proprio uguale a Carlo”. “Oh cazzo… È Carlo!”. Allungo il collo per avvicinare gli occhi. Anche pochi centimetri possono fare la differenza. Formulo le parole “sei tu” con il solo labiale. Mi sorride. È lui. Mentre Leonardo continua il suo monologo penso a Carlo e alla sorpresa che mi sta facendo. Al senso del fatto che sia qui stasera, a 150 km da Reggio Emilia. Non ha senso. È alla terza presentazione del mio libro. Ogni tanto ci lanciamo un’occhiata.

Da quanti anni conosco Carlo? 40. Una vita. Faccio un respiro profondo per riprendermi dalla consapevolezza del tempo che è passato. Da quanto tempo? E la mente corre alla prima pagina del mio libro: “La salsedine che riempie il respiro, il sale che secca la pelle, la sabbia che brucia sotto i piedi… Se chiudo gli occhi e guardo indietro, alla prima immagine ed emozione che ricordo, vede il mare, il movimento incessante delle onde, il ritmo con il quale si infrangevano una dopo l’altra, una nell’altra. L’orizzonte limpido e infinito del Mediterraneo, le sfumature di azzurro che riempivano ogni respiro. Alle mie spalle la spiaggia e, poco più indietro, Bengasi, la seconda città e porto principale della Libia.

Al mio fianco Sami, il mio migliore amico, e poi Alessandro, Anwar, Carlo, Massimo e Ricky. (…). Passavamo ore a correre e saltare tra le onde (…).

Sono i miei primi amici. Carlo c’era già. Ma poi? Poi, c’è sempre stato. Non te lo dava a vedere. Era discreto, Carlo è sempre stato discreto. Ma se c’era una persona sulla quale potevi contare, quella era Carlo. Difficilmente Carlo diceva di “no”. Almeno, le volte che l’ho sentito io sono talmente rare che mi sono chiesto se sapesse pronunciare quella parolina. Carlo è quello che ti aiuta senza che tu glielo chieda. Carlo è quello che ti sorprende. Come mi ha sorpreso quando mi ha chiamato per dirmi che stava organizzando una presentazione del mio libro a Reggio Emilia. La sorpresa più grossa è stata la sua introduzione. Di me ha detto cose che non avrei mai immaginato. Ma la cosa ancora più sorprendente è stata l’emozione con cui leggeva. Mentre lo ascoltavo, mentre lo guardavo pensavo a quanto gli voglio bene e quanto, alle volte, mi è capitato di darlo per scontato. Invece Carlo è un altro gigante. Non te lo dà a vedere. Devi scoprirlo lentamente e te lo devi meritare.

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Quando Franco, suo papà, ci ha lasciati, dopo che Carlo l’aveva accudito per un numero incalcolabile di fine settimana, sono andato al funerale con Flavio, un nostro amico dai tempi della Libia. Tornando ripensavamo alla famiglia Coda, agli episodi di vita vissuta con Carlo, Massimo, Marina, Franco e Paola. Flavio interrompe uno dei lunghi silenzi che ci accompagnavano sulla strada del ritorno:

“Carlo è la persona più buona che io conosca”.

“È vero Fla”.

Abbiamo terminato lo spettacolo e mi sono precipitato da Carlo. Ci siamo abbracciati. Poco lontano da noi Stepan mi aspettava. Gli avevo giurato che finita la rappresentazione saremmo tornati a casa. Non avevo intenzione di rompere la promessa.

“Carlo, porca miseria, se tu mi avessi avvisato mi sarei organizzato. Purtroppo devo andare a casa subito”.

“Non è importante Ricky, mi bastava sentirti parlare”.

Questo è Carlo.

Leonardo e Carlo, i giganti.(Prima parte)

Diversità, sofferenza, depressione, resurrezione, felicità. Il monologo di Leonardo lascia il segno, come sempre. Il teatro è quasi vuoto. Ci saranno 30 persone, ma sono persone motivate. Sono presenti perché vogliono sentire qualcuno parlare di difficoltà e sofferenza, e soprattutto da chi le ha superate. L’attenzione è così forte che si può quasi toccare il silenzio. Il carisma di Leonardo fa presa come il cemento rapido che si asciuga sotto il sole. Forte.Ogni volta che sento raccontare la sua storia mi sorprende che un uomo sia passato attraverso tutta quella sofferenza quasi indenne. E oggi lo racconta con una straordinaria autoironia, la cifra della sua resurrezione. Tutte le volte che lo ascolto scopro una nuova sfumatura, un nuovo angolo che cominciano sorprendermi sempre meno man mano che lo conosco. E la mia stima cresce.

Io sono in mezzo al palco comodamente seduto sulla mia seggiola a rotelle. Ho finito la prima parte del mio intervento sulla disabilità. Tocca a Leonardo, il mio “fratellone”, che mi vuole sempre vicino. Dice che ha bisogno di interagire con me. Ma probabilmente vuole la mia compagnia o forse la mia rassicurazione. Non importa. Il mio fratellone mi vuole lì, al centro, e io sarò lì dove lui mi vuole. Lo chiamo “fratellone” nonostante l’altezza. Anzi, a dispetto dell’altezza, per rompere gli schemi così come ho intitolato “Tutte le fortune” il mio libro.

Ci siamo conosciuti alla seconda presentazione del libro in questo caso fortissimamente voluta da Ida La Camera del circolo “vivi con stile” di Legambiente. Stavamo provando il microfono alla “Stecca degli artigiani”. Il microfono funzionava. L’asta che doveva tenerlo poco lontano dalla mia bocca, invece, non voleva saperne di stare in posizione. Aspettava pochi secondi e poi si piegava come un girasole nella notte. Ogni volta che provavano.

La presentazione alla “Stecca degli artigiani”

Leonardo era saltato giù da una sedia in seconda fila, aveva raggiunto il gruppetto di tecnici o sedicenti tali, aveva staccato il microfono dall’asta e con la sua dolcezza che non ammette repliche disse che lo avrebbe tenuto lui. Mi sono preoccupato. Leonardo è affetto da acondroplasia. È un nano, tanto per intenderci. L’avevo guardato con sorpresa e mi ero preoccupato. Non volevo approfittare. “Tranquillo” mi disse guardandomi dal basso in alto con la sua voce profonda e calda. Il microfono è stato tutta la sera in posizione. Leonardo non si era mosso di un soffio. Ha tenuto il microfono senza lamentarsi. Poche settimane dopo debuttavamo con il nostro spettacolo sulla disabilità. Così ho scoperto cos’è Leonardo. È un uomo come ce ne sono pochi. Quando lo vedi arrivare lo noti perché è piccolo piccolo. Poi lo conosci, e Leonardo si conosce in fretta, e ti rendi conto di essere al cospetto di un gigante. Perché tutta quella umanità, quella generosità, quella dolcezza non possono che albergare in un gigante.

Quando Leonardo parla non sta fermo un istante: attraversa il palco, torna indietro, sparisce dietro una quinta, ricompare dall’altra, mi raggiunge e mi mette una mano sulla spalla. Riparte. Ritorna. Io rischio il mal di testa ma non lo perdo d’occhio. Lo seguo incessantemente.

Lo sto seguendo da alcuni minuti. Gli occhi lo seguono quando improvvisamente mi suggono verso sinistra. In prima fila. Le luci del palco che assolvono anche il compito di non rendere visibile il pubblico non mi danno una mano. Sono attratto da una figura familiare. “Toh”, penso dopo un po’ che lo osservo. “Guarda un po’ quanto quello assomiglia a Carlo”.

La dedica

“Ok Ricky, sono pronto. Dove scrivo?”

Flavio si assesta sulla sedia. Controlla la penna. Funziona. Non gli resta che scrivere la dedica che gli sto per dettare.

Siamo ancora rimbambiti dal sabato prenatalizio. Milano è uggiosa. Caotica. Una giornata da restare “tappati in casa”.

Invece siamo nella hall dell’albergo in piazza Lodi. I Bengasini, i bambini italiani che negli anni 70 erano a Bengasi in Libia pernottano lì. Stasera sono tutti a cena a casa nostra. Tutto è nato alcuni mesi prima da una straordinaria idea di Carlo e di Tamara Budec. Hanno creato un gruppo su Facebook, “Bengasi anni ‘70: io c’ero”. Hanno invitato tutti i Bengasini che conoscevano e che erano usciti a rintracciare. Abbiamo cominciato a scriverci scavando nella memoria. E a settembre eravamo tutti a Milano a incontrarci per la prima volta. Quarant’anni dopo.

… Mentre detto la dedica a Flavio…
… Mentre detto la dedica a Flavio…

“Sulla quinta pagina – indico a Flavio la posizione mentre gira le pagine – si, proprio lì”

“Cosa scrivo?”

“Aspetta che faccio mente locale”. Chiudo gli occhi per concentrarmi il minimo necessario.… Penso a Tamara. Alla bambina che mi piaceva in Libia. Alla donna coraggiosa che avevo incontrato alcuni anni fa su Facebook. Alla sua passione per “badavo in badanti.org” e all’idea che diventasse un libro. A settembre aveva dimenticato la sua copia di “Tutte le fortune” ed era ripartita senza alcuna dedica. Delusa.

“Ok Fla, ci sono. Scrivi la data”

Flavio si china leggermente sul libro aperto e comincia a scrivere.

Intanto rifinisco mentalmente la dedica. Ma…

“Fla, cosa hai scritto?”

“La data”

“… E perché?”

“Perché me l’hai detto tu”

“Sí ma io intendevo la data”

“E io l’ho scritto, Ricky”

“Fla, la data… 3 dicembre 2016”

“Oh cazzo”, Flavio mi guarda con due occhi sbarrati. Si dà prontamente un tono.

“Io pensavo che tu volessi scrivere…”. Non regge. Si rende conto che qualsiasi tentativo di spiegazione è più grottesco del fatto di avere scritto la data, e continua a fissarmi in silenzio. La nostra resistenza è patetica. All’improvviso la quiete della hall è squarciata da una risata fragorosa.Tamara è ripartita con una dedica e qualcosa da raccontare

Ciao Sergio, l’amicizia è per sempre

Arguto. Intelligente. Simpatico. Generoso. Straordinariamente generoso, soprattutto. Questo era Sergio. O forse, questo è Sergio. Sì perché chi lo ha conosciuto non può non portarsi dentro qualcosa di lui. Un piccolo dono che Sergio ti faceva semplicemente esistendo. Sergio contaminava.

Sergio non c’è più da pochi giorni. È stato portato via da un maledetto tumore al colon contro il quale aveva combattuto con ferocia senza perdere il suo spirito.

Voglio ricordarlo così. Pubblicando questa sua e-mail. È stato un esempio.

8 febbraio 2015: Oggetto:… Quale amicizia?

Riccardo,

ho sfogliato le numerose pagine del tuo blog. Vado dritto al punto.

…mi sono chiesto: ma fino ad ora dov’ero io?

Mi sono professato amico di Riccardo…ma dov’ero quando succedevano le cose che descrivi? Ne manco le sapevo se non genericamente.

Mi ha tremendamente intristito l’escursus sull’infarto. Triste per il fatto e gioioso del lieto fine: tra amici e con al fianco Nelly.

…ma io non c’ero. Cavolo non posso trincerarmi dietro al semplice “non lo sapevo” o al facile “nessuno mi ha avvisato”. Troppe volte ho detto: “ho un amico che solo per la forza di carattere ed il coraggio che dimostra ogni giorno, merita l’Amicizia” …ma poi, finita la bella boutade, l’amicizia non l’ho mai spesa seriamente. 

In quelle rare occasioni in cui riusciamo a vederci, ti abbraccio e affermo: “che piacere vederti”. E’ verità, ma è quasi un parlare auto-liberatorio. Ho detto la frase che ora mi fa stare meglio. Sembra quasi che con questa dimostrazione di amicizia mi voglia mettere l’anima a posto. Che stronzo! Quando invece bisognava esserci per quella stessa amicizia dichiarata…dov’ero?

 Ho sempre creduto nell’Amicizia (con la “A” maiuscola). Quella con Gianni; ora con Umby (pur conoscendolo da anni, è in questi ultimi tempi che va rafforzandosi); quella con l’amico, di cui ti ho fatto cenno, che scrive come te. E quindi non riesco a non sentirmi un vigliacco pensando a quello che passi ogni giorno, senza che io abbia mai fatto nulla per dimostrarti veramente almeno la mia vicinanza; ma a prescindere dai tuoi problemi, senza aver impegnato la mia Amicizia seriamente.

 Scusa. Spero di potermi far perdonare.

 Sergio

PS – Per non far sembrare questa mia una “misera richiesta di conforto”, quale rischia di essere, per favore non rispondere. Ci sarà modo di riparlarne in futuro 😉

La mia risposta

Sergio…

Hai ragione su un fatto: sei stronzo! Proprio stronzo! Ti spiego serenamente e chiaramente perché. Sei stronzo perché mi hai chiesto di non risponderti. Sei stronzo perché pensi di avere qualcosa da farti perdonare. Sei stronzo perché ti reputi un vigliacco. Sei stronzo perché vuoi imporre (metaforicamente) la tua idea di amicizia. Detto questo, siccome sono più stronzo di te, ti rispondo. E ti rispondo con la mia idea di amicizia. Che non è fatta di quantità, di parole, minuscole o maiuscole. È fatta di spirito. Nei tuoi abbracci c’è tanto di quell’affetto sincero che mi rende più ricco ogni volta che ti vedo. Poche volte. È vero. Ma il mondo non gira intorno a te. Il mondo ci fa girare ognuno con un ritmo diverso. So benissimo dove sei stato in questi anni. A spaccarti la schiena lavorando per la tua famiglia (bellissima!). A passare il tempo con i tuoi figli. E come se non bastasse ad affrontare un tumore maledetto. A proposito del tuo tumore: io dove ero?

Ne parleremo tutte le volte che vorrai. Te lo prometto. Intanto ti butto lì uno spunto. Quello che è stato, è stato. Pensiamo piuttosto a quello che sarà. E, soprattutto, a quello che è. Quello che è ha il volto di Gianni, che ci ha avvicinati ancora di più!

Adesso se vuoi mandami pure a fare in culo…

Io ti abbraccio forte forte!

Ricky

 Alba

LA “VENDETTA” DI ALESSANDRO PACIELLO

Per dieci anni ha abboccato all’amo come un pesce famelico. Per almeno dieci anni, probabilmente di più, Alessandro è stato la vittima seriale della mia malattia. Il suo candore e la sua visione ottimista del mondo non lo hanno messo a contatto diretto con la mia parte invalida. Non l’ha mai rifiuta. L’ha solo ignorata andando oltre. L’ha ignorata perché Ale non mi ha mai considerato un disabile. Uno dei pochi. Fino al punto di dimenticarsene. Per poi pentirsene quando in qualche insospettabile conversazione usava un luogo comune classico: incrociare le dita.

“Ricky, domani vado a incontrare un potenziale cliente, incrociamo le dita”.

“Fantastico Ale! Incrociale anche per me!”

Ale esita. Per un attimo impercettibile perde la sua proverbiale dialettica. Qualcosa nella sua testa sta stonando.

“Scusa Ricky, non ci ho pensato”. Si mortifica fino a stracciarsi. Ale non dà mai spiegazioni. Si assume totalmente la responsabilità.

Le prime volte faccio apposta. Invece di passare oltre, mi diverto a metterlo in difficoltà. Anzi, creo l’occasione. Poi, mentre il tempo passa, diventa un gioco. E il “scusa Ricky” carico di mortificazione si trasforma in un “cazzo… mi hai fregato ancora”. Seguito da quattro risate. Così, siamo andati avanti anni.

Poche settimane fa ci siamo sentiti per uno dei nostri aggiornamenti periodici. Ci raccontiamo dei clienti, dei progetti comuni, delle idee. E quando arriva il mio turno lo ragguaglio a proposito di un cliente difficile, di un’incompetenza abissale. All’incompetenza aggiunge una dose letale di arroganza. Non capisce procedure e processi di pensiero della redazione di un bilancio di sostenibilità. E il cliente, che teme i suoi vuoti e non ha la personalità per riconoscerli, ci aggredisce. Ci dà indicazioni contraddittorie. Per poi umiliarci. In 25 anni non ho mai incrociato tanta meschinità. Le trasferte a Torino sono pesantissime.

“Ieri in riunione è stato talmente infame – racconto ad Ale – che se non fosse stato perché siamo entrati insieme ad altri partner, mi sarei alzato e me ne sarei andato”.

“… E sarebbe stato un miracolo”, rimanda Ale.

Ci rimango male. Ale sa bene che ho già revocato due incarichi di fronte alla scorrettezza di un manager. Perché dovrebbe pensare che questa volta … c’è qualcosa che stona.

“Nooooo Ale! – urlo nel cellulare – mi hai fregato!”

Ho abboccato.

(Marzo 2015)

 

LE NOTTI ALLA RINGHIERA: IL DECALOGO DEL PELO

naviglioPrima leggi: LE NOTTI ALLA RINGHIERA: IL DECALOGO DELLE CHIAPPE

Febo mi incalza: “pelo biondo…?”

“Mi ci fiondo”, rispondo prontamente.

Febo prende appunti e commenta ghignando: “bella questa!” E continua imperterrito: “pelo moro…?”

“Lo traforo”.

Febo scrive accompagnando la penna con una risata. Marco, il barista, e Guido, il fratello di Marcone, non riescono più a trattenere la curiosità. Si avvicinano. Si siedono. E assistono. La Ringhiera sempre deserta. Marcone ci raggiunge.

“Pelo riccio? ”

“Lo stropiccio “, rispondo di slancio.

“Pelo ritto”.

“Pelo ritto?… Pelo ritto?… Va sconfitto!”

” Cioè?” Febo si fa severo. Fintamente severo, mentre si prepara alla prima bocciatura.

Gli altri assistono con le lacrime agli occhi.

“È una questione di logica – spiego, o almeno cerco di spiegare dandomi un tono – Un pelo ritto è rigido. Quindi respingente per definizione. Ora. Per poter passare, bisogna scansarlo … come … per esempio … in un assalto di scherma. In una parola, va sconfitto”.

“Ok – decreta Febo – e, pelo fitto?”

“Ne approfitto …”

“Questa era facile – sospira Febo – pelo rosso?”

“……… A più non posso!”, scandisco trionfante. “Ricks, la mettiamo la rima – obietta Febo – rosso non fa rima con posso!”. È un susseguirsi di “o” spalancate prima e chiuse poi.

Contro obietto. “Dai Febone! Ti ho propinato 18 rime ineccepibili. Questa me la lasci passare, almeno per la sua creatività”.

“La rima, Ricks. Ci vuole la rima”.

“Ok – annuisco – pelo rosso a più non posso”. Chiudo la “o” di posso. E la rima è fatta.

Febo approva.

“Ultimo Ricks”. Febo si concentra. Fissa l’elenco. Raccoglie i pensieri. E lancia la decima sfida: “pelo grigio”.

“Questa sì che mi mette in difficoltà Febone. Pelo grigio ………… eccola … sarò ligio”.

Ci alziamo. Prima, Febo prende i decaloghi. Li piega. E mentre li sta mettendo nel portafogli viene bloccato dalla mano di Marcone.

“Questi rimangono qui – decreta – li tengo alla cassa”.

“Scusa, posso vedere i decaloghi?”. Ogni sera qualcuno chiede a Marco o a Marcone gli elenchi. Questa sera però …

“Febone…”.

“Ricks…”.

“Conosci?”. Indico il ragazzo davanti alla cassa.

Febo lo squadra. “No. Perché?”

(1995, maggio. Circa)

LE NOTTI ALLA RINGHIERA: IL DECALOGO DELLE CHIAPPE

“Culo alto, ci fò un salto”. È poco più di un sussurro.

“Cosa Ricks?”. Febo si scuote leggermente dal torpore. Forse risponde per educazione. Forse per non morire di noia. È passata mezzanotte. Già da un po’. Febo, come una Cenerentola al contrario, è arrivato come tutte le sere puntualmente poco dopo le 24. La serata fiacca non invoglia nulla. La Ringhiera, la birreria di Marco sul naviglio grande, il nostro ritrovo, è deserta. Febo e io stiamo seduti in silenzio. La misura dell’inutilità dell’uscita. Febo e io abbiamo sempre qualcosa di cui conversare.

Seduto a metà del locale, la schiena contro il muro, ho tutto sotto controllo. Dalla porta alla mia sinistra, al bancone alla mia destra. Febo, seduto di fronte a me, dà le spalle alla sala. Continuiamo a non parlare. Stiamo aspettando che uno dei due faccia la mossa di andare.

La porta si apre. Entra camminando veloce. Si appoggia al bancone per chiedere un’informazione. Carina. Molto. Giubbotto blu in stile marina. Capelli castani lunghi e lisci. Gambe fasciate in jeans aderenti. Stacco coscia chilometrico.

Ho detto “Culo alto, ci fò un salto, Febone”.

Febo mi restituisce uno sguardo confuso. Rispondo indicando il bancone con un cenno della testa. Febo segue il mio sguardo fino ai jeans. Prende attentamente le misure. E conclude con due osservazioni tipicamente maschili. Che, naturalmente, accolgo con una risata di consenso. Intanto lo stacco coscia è tornato sul naviglio. Mentre il silenzio ha riconquistato il nostro tavolo.

“Scusa Ricks, ma se fosse stato basso…?”

“Se fosse stato basso cosa?”

“Il culo Ricks, se fosse stato basso il culo?”

“E che ne so Febone … lo trapasso. Culo basso, lo trapasso”.

Una scintilla sembra impossessarsi degli occhi di Febo. È un’impressione. Confermata subito dopo da un sorriso appena accennato.

“E se fosse sodo?”

“Me lo godo…”.

La scintilla diventa una fiamma. Il sorriso si accentua.

“Se fosse grasso?”

“… È uno spasso”.

Botta e risposta. Febo comincia a divertirsi. Senza dir nulla mi ha lanciato la sfida: trovare rime rigorose.

“Aspetta Ricks…”. Febo si precipita al bancone. Afferra il blocco delle ordinazioni, una penna, e torna agguerrito e divertito. Ripassiamo le rime e procediamo fino alla decima.

“Ok Ricks. Col culo è facile. Voglio vederti alla prova del pelo”.

(Maggio 1995, circa)

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VINCERE

Non nascondere la malattia. Il miglior modo per celarla, senza premeditazione. È una conseguenza naturale del vivere non pensando alla CIDP, al Parkinson e al cuore. Così gli altri se ne dimenticano. E io ogni tanto ci gioco. Un equilibrismo con l’ironia di chi mi è di fronte. Che diventa un gioco di brevi e potenti risate quando oltre l’ironia si riscopre l’autoironia.

La sigla “Mdd” vibra sul display del BlackBerry. È passato tantissimo tempo dall’ultima volta che ci siano sentiti. Troppo.

Sorrido.

Avvicinino il pollice al tasto verde del BlackBerry. Tremando tanto da far impazzire un sismografo. “Questo cazzo di Parkinson mi fa perdere un casino di tempo”, penso, mentre colpisco tutto ma non il tasto di risposta. Ci riesco al quarto tentativo.

“Pronto!”, rispondo allungando la seconda “o” in segno di giubilo.

“Buonasera Riccardo”. Voce impostata, incrinata da un impercettibile piega ironica. Riesco a vedere il ghigno appena accennato da chi si trattenendo. C’è aria di annuncio.

“Buonasera Marco”. Imposto la voce con altrettanta enfasi.

“Riccardo…”

“Si…”

“Riccardo, sei seduto?”

È un’occasione per giocare. E la colgo al volo. L’avversario è impegnativo. Rido.

“Marco?”

“Si?”

Faccio un breve pausa.

“… Ma che cazzo di domanda mi fai?…”. E libero la risata.

Dall’altra parte del collegamento Marco fa una pausa infinitesimale. Ride. E ribatte prontamente.

“… Appunto. Riccardo, hai allacciato anche la cintura di sicurezza?”

“Vai!”

“Riccardo, ufficiosamente ti annuncio che abbiamo vinto la gara”.

Marcodd racconta particolari e retroscena e, in pochi minuti, la telefonata diventa una lunga, piacevole conversazione su tutt’altro.

Vinco , tutte le volte che qualcuno si dimentica della mia salute.

 

(Dicembre, 2014)

 

FABRI, IL FREDDO, IL PARKINSON E UN’AMICIZIA PIÙ GRANDE DI QUELLA CHE SEMBRA.

Capita di dover uscire controvoglia. Dopo cena. Contro pioggia e vento freddo. Controvoglia per il tempo infame. A favore dell’uscita: raggiungere Nelly alla presentazione di un prodotto naturale antiinfiammatorio, immunomodulante e virtù varie.

Fabrizio è passato a prendermi. Andremo insieme. Il prodotto interessa anche a lui.

Ci siamo conosciuti in Grecia. A Paros. Quasi vent’anni fa. Un’amicizia improbabile. Da lontano sembriamo così diversi. Così uguali, conosciuti da vicino. Ci siamo legati con il passare del tempo. Con fili sottili all’apparenza. Che hanno tessuto una trama inestricabile. Fabri è un amico discreto. Ma non manca mai. Quando nel letto dell’unità coronarica ho aperto gli occhi Fabri era li. Seduto sulla sedia. Mi ha salutato con il suo sorriso coinvolgente incorniciato dai capelli sempre lunghi. Tranquillo. Allegro. Positivo. E affettuoso. Come il suo sorriso. È Fabri. C’è. C’è sempre.

Parcheggiamo e ci dirigiamo all’indirizzo. L’acqua ci accompagna. Ci accompagna anche il vento freddo. Arriviamo al 28/A. Controlliamo l’SMS di Nelly. C’è scritto 28. Ma non lo troviamo. Fabri scatta verso l’incrocio per controllare che sia dietro l’angolo del palazzo. Nulla. Torna indietro. Citofona al 28/A. Tanto per provare. Nulla. Tre tentativi. Tutti senza risposta.

“Mi fumo una sigaretta. Tanto mancano cinque minuti…”.

Seduto sulla carrozzina guardo Fabri. L’occhiata è di intesa. Arrivando in macchina abbiamo chiacchierato del più e del meno. Senza che ce ne fosse bisogno. L’Inter. Il lavoro. La mia salute. Ogni tanto qualche lunga pausa.

Mentre aspettiamo ascoltiamo i rumori della città smorzati dalla pioggia leggera. Incrocio le braccia. Ogni tanto rompiamo il silenzio con qualche battuta.

“Roby e Isabella?”

“Bene”. Il sorriso di Fabri è una dichiarazione d’amore verso i suoi figli.

Pausa. Lunga.

“Hai freddo?”, domanda Fabri laconico. Quasi disinteressato. Più per incrinare il silenzio.

Contemporaneamente le mie braccia subiscono un scarica di tremori.

“No… è il Parkinson”, rispondo altrettanto laconico. Quasi disinteressato. Più per il dovere di dare una risposta.

Fabri tira una boccata di fumo. Si guarda la punta delle scarpe vagamente perplesso.

“Ma io volevo solo sapere se hai freddo?”. Mentre nota le mie braccia in preda a una nuova scarica vibrazioni.

“Ah,… non ho freddo…”. Io continuo per la mia strada.

Fabri mi abbraccia. Delicatamente.

Pausa. Lunga.

Fabri accenna a ridere. Più che altro un sussulto. Pausa.

Ripenso allo scambio. Sussulto anch’io.

“E la gara per il bilancio di sostenibilità del birrificio?”. La domanda rimane sospesa per un momento.

“Vinta “.

Fabri tira un boccata di nicotina mentre butta lo sguardo distrattamente verso la piazzola.

Sorride. E trattiene una risata. Pausa.

Ciondolo con la carrozzina. Ho lasciato le pedane in macchina come mi capita sempre più spesso. Mi muovo spingendo con le gambe. Una parvenza di autonomia.

Trattengo una risata. Pausa.

Non si può ridere per una simile idiozia. E soffoco una risata con sempre maggiore fatica.

Fabri si incammina verso l’angolo ridendo sommessamente.

“Cosa ridi?” gli intimo per niente convinto. Ridendo.

Continuando ad allontanarsi, Fabri mi lancia un’occhiata con la coda dell’occhio. Il sorriso vagamente furbo. E si abbandona. Contagiandomi.

Le risate superano il rumore della pioggia e del traffico con la forza di un’esplosione. I nostri sguardi sono il detonatore. Quando si incrociano scoppiamo. Smettiamo quando si allontanano. E continuiamo così. Per tutta la serata, o quasi.

Dissacrare le mie malattie è un dovere. Dissacrarle con un amico è da morire dal ridere.

(Febbraio, 2014)

MIA SORELLA SI DISIMPEGNA MENTRE … (Parte 2)

“Ricks, vuoi riposare”. Febo è focalizzato su di me. Totalmente. La scalata verso l’appartamento di Gianni al quinto piano procede a ritmo costante, inarrestabile.
“Meglio di no, ragazzi. Sennò perdo il ritmo”. Febo a destra, Gianni a sinistra. Un braccio intorno alla spalla di ognuno. Marciamo su per le scale coordinati come tre soldatini. Sinistro, destro. Sinistro, destro.
Gianni ci ha invitati a cena. Come fa ogni tanto il sabato. Febo è passato a prendermi. Abbiamo attraversato Milano. Abbiamo citofonato al cancello di via Cascina Bianca . Arrivati al citofono della porta di vetro Gianni era li. Ad aspettarci.
“Ricky, cazzo, l’ascensore non funziona”. Gianni grugnisce mortificato e incazzato.
“Ok – rispondo deciso – saliamo a piedi. Ricordami quanti piani sono?”
“Cinque …”.
“… con calma”, concludo. E attacchiamo la prima rampa.
Le cene con Gianni e Febo non sono mai banali. La conversazione è vivace. Sempre. Intellettualmente stimolante. Si parla di tutto. Quella sera anche del rifiuto di Marta.
Del suo atteggiamento che rasenta il menefreghismo.
“Mi dispiace Ricks”. Febo è quasi imbarazzato.
Gianni non reagisce. In apparenza. Guarda nel piatto. Scruta intensamente. Tanto da poterlo scheggiare.
La conversazione vira sul senso della famiglia e sulla solidarietà. Sul primo, sono rassegnato.
Al quinto squillo riesco ad impugnare la cornetta decentemente.
“Ricks!”
“Giannone!”
Pochi secondi di convenevoli e Gianni viene al punto. Ha organizzato tutto. Febo, Romana e lui si alterneranno per portarmi alle sedute di psicanalisi e dall’omeopata a Piacenza. Annaspo per cercare le parole. Che non trovo. Solo un “grazie”. Che mi sembra poco per il disturbo. Un grazie che ripeto mentre cerco un’espressione più profonda. E mentre lo ripeto entro in contatto con l’immensità di quello che sta accadendo. Gianni, Febo e Romana mi stanno dando la loro solidarietà senza condizioni. Trovo quello che ho chiesto per anni invano alla mia famiglia. Il “grazie” inadeguato si trasforma. Si scalda e si anima.
Sono solo cinque lettere spesso pronunciate superficialmente. In quell’istante, per la prima volta, quel suono scontato, entra in contatto con la mia debolezza. Esce trasformato. Carico del vero senso della gratitudine. Essere consapevole della mia debolezza. Accettarla. Ammettere di avere bisogno di aiuto. E accettarlo, riconoscendolo. Imparo che un grazie sincero, consapevole, segna il limite tra la debolezza e forza.
Riconosco la mia famiglia. Mi accompagnerà per anni. Scopro Gianni. Una presenza costante. Discreta. Che si proietta verso l’essenza delle cose, scrutando nel fondo dei piatti. E trova le soluzioni. Senza proclami.
Quel sabato sera, la scalata verso l’appartamento di Gianni, appoggiato alle sue spalle e a quelle di Febo, è la metafora della mia vita. Dell’amicizia incondizionata che entra nella dimensione della famiglia. Ho raccolto quello che ho seminato.
(1996 – 1998)