Il modello è consolidato. Ricovero nel tardo pomeriggio del venerdì. Dimissioni la domenica sera. In mezzo due giorni di immunoglobuline endovena. Tutto procede. Anzi no. La domenica pomeriggio ho uno sbalzo di pressione. Me dimettono lunedì mattina.
Lunedì mattina. Fatico a svegliarmi. Fatico a tenere gli occhi aperti. Continuo a riaddormentarmi nonostante i rumori del reparto che si anima. Ho passato due notti infernali. Il mio compagno di stanza, un anziano signore di circa settanta anni, ha russato incessantemente come un bue impestato di catarro. Tra un sonno e un risveglio aspetto che passi Giuseppe con la lettera di dimissioni. Che arriva puntualmente con il giro dei medici.
“Stamattina c’è Il Prof. – esordisce Giuseppe – ti vuole vedere. Appena finisce ti passa a visitare”.
Annuisco. Incontrare Il Prof. è un piacere al quale non mi sottraggo mai. Giuseppe esce dalla stanza. Io mi riaddormento.
Mi risveglio nel primissimo pomeriggio. La frenesia del reparto è cessata. I rumori di carrelli, di barelle, di infermiere che coordinano l’attività e che impartiscono ordini sono svaniti dal corridoio, sostituiti dal chiacchiericcio dei pazienti. Mi alzo e mi avvicino alla porta della camera. L’orologio del posto infermieri segna le quattordici appena passate.
“Porca miseria – il pensiero mi schizza attraverso la mente – rischio di passare un’altra notte in ospedale”. Mi avvicino a Maurizio, un infermiere gigantesco di una bontà incommensurabile, e gli chiedo del Prof. Chiama l’ambulatorio. “Quando termina le visite ambulatoriali arriva”. Ok. È ancora nel DIMER. Torno a letto. E cerco di leggere. Dopo pochi secondi sto dormendo.
Mi risveglio che l’orologio sul muro segna le 16.00. Alle 17.00 scade il tempo per le dimissioni. Salto giù dal letto e irrompo nel corridoio mentre sta passando Giuseppe.
“Il Prof.?”. Cerco di contenere l’irritazione.
“È in ambulatorio…”.
“Lo so dove è, Giuseppe. Potresti ricordargli che lo sto aspettando?”
“Meglio di no, Riccardo. Porta pazienza”.
“Giuseppe, è tutto il giorno che porto pazienza. Fammi questa cortesia, avvisalo. Anche perché non ho intenzione di passare un’altra notte in ospedale, a costo di dimettermi sotto la mia responsabilità. Diglielo pure”.
“Ok, Riccardo. Io lo faccio. Ricordati però che ti ho avvertito, conosci il suo carattere”. E si avvia lungo il corridoio verso la porta in fondo.
Mentre Giuseppe diventa sempre più piccolo, un paziente che ha sfacciatamente ascoltato il nostro scambio si avvicina. E mi ammonisce. Mi spiega di quanto bene conosca Il Prof. Di quanto abbia un brutto carattere. Di quanto non si presti a simili ricatti.
“Anzi, sai cosa rischi?”.
“Cosa rischio?”. Non so perché glielo sto domandando. Lo sto ascoltando a mala pena. E quel poco che percepisco non solletica in alcun modo il mio interesse.
“Rischi che per ripicca ti faccia aspettare fino a domani. Lo conosco troppo bene”. Siamo uno a fianco all’altro eppure la sua voce mi sembra lontanissima.
Pochi minuti dopo che la porta del reparto si è chiusa dietro le spalle di Giuseppe si riapre di fronte a Il Prof. Che avanza deciso lungo il corridoio. L’espressione concentrata. Tesa. Come sempre. Con le quattro rughe sulla fronte che manifestano la sua missione: “sto pensando a voi”. Gli occhi di ghiaccio fissati sul pavimento di linoleum color carta da zucchero sono un messaggio: “non mi disturbate, sto lavorando per voi”. Sembra sempre tra l’incazzato e l’assorto. Io sono sempre stato convinto che invece sta pensando ad un’elettromiografia, a un paziente particolare, a una terapia. Insomma la neurologia è il suo centro di gravità.
“Ora sono cazzi tuoi”, mi sussurra il paziente. Non riesco a capire se il mio “compagno di reparto” sia divertito o mi stia mettendo in guardia. Troppo tardi. Il Prof. ci ha raggiunti. Alza lo sguardo dal pavimento. I nostri occhi si incrociano. Sorride. E destabilizza il paziente.
Mi visita sommariamente. Mi chiede come mi sento. “Tutto bene Prof.”.
“Bene, vada pure a casa”, mi dice dandomi una pacca sulla spalla. Sono passati pochi istanti da quando siamo entrati in camera.
Esco dalla camera con lo zaino in spalla. Saluto gli infermieri. E anche il paziente che è rimasto davanti alla mia porta ad assistere quasi impietrito dalla cordialità del Prof. “Scusa, ma tu, chi cazzo sei?”, mi domanda scrutandomi come se cercasse la risposta prima di sentirla. “Io? Uno…”.
(1995 circa)