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Malattie misteriose Italia e la CIDP (02/06/2016)

Sono stato il testimonial della CIDP nella prima puntata di “Malattie Misteriose Italia”. Una piccola operazione di trasparenza: oggi e mentre giravamo ero su una seggiola a rotelle; il trapianto di midollo non è stato risolutivo.

Clicca sulla fotografia per vedere il documentario. La mia parte comincia a partire dal minuto 19.

Malattie misteriose

 

 

TRAPIANTO DI MIDOLLO: L’INFUSIONE DI UNA NUOVA VITA

PRIMA LEGGI: “Trapianto di midollo: il persecutore”

 

“Ma che cazzo continui a parlare!? Non è il momento, cazzo! Cosa diavolo sei venuta a fare? Non riesci a capire cosa sta per succedere?”

Avrei dovuto sbottare così. Anzi, mi sarei dovuto incazzare. Furiosamente. Invece.

Apro gli occhi e mi guardo intorno. Tutto è al proprio posto. Il letto, la poltrona, la cyclette, la televisione. La finestra con la tapparella alzata. Il sole. Il persecutore no. Non c’è.

26 dicembre 1999. Il giorno è arrivato. Oggi Fabio aprirà la porta della stanza. Entrerà con le sacche delle mie cellule staminali. Le aggancerà alla piantana alla destra del letto. Le collegherà al catetere venoso centrale. Aprirà il piccolo rubinetto. E sarà fatta. Ho aspettato così a lungo. Ho lottato così tanto per questo momento. E oggi sta per accadere.

Il tempo non passa. I secondi si dilatano fino a sembrare minuti. I minuti, ore. Cerco conforto in Alexandros. Invano. Ogni neurone, ogni cellula è proiettata verso la piantana ancora scarica. Verso i passi nel corridoio. Verso la porta della stanza per intercettare i segnali dell’arrivo di Fabio.

La mattina scorre lentamente. Il tempo è scandito dalla routine del reparto. Il prelievo di sangue. La colazione. L’igiene. Ogni volta riconosco i passi degli infermieri. Il rumore degli zoccoli di plastica contro il pavimento di formica. Passi decisi, come ogni azione del reparto.

Passi. Questi non sono familiari. Come non lo è l’aprirsi della porta. Incerto. Titubante.

“Marta! Ciao!”. La sorpresa è degna del momento.

“Ciao Ricky”, risponde Marta fermandosi ai piedi del letto.

“Come stai? – domando – la Giorgia?”

Due battute innocue per iniziare. Poi…

“La mamma è uno stress. Le ho detto che a Capodanno voglio portare la Giorgia a Euro Disney e ha cominciato a rompere. Che non devo andare. Che vista la situazione dovrei restare. Che tutto è sulle sue spalle. Che se succede qualcosa qui in ospedale… Uno stress che non puoi capire. E la mia bambina?”.

Non capisco. Mi sforzo, ma proprio non capisco. Sto per fare un trapianto di midollo, un intervento serio. Ho appena finito cinque giorni di chemioterapia pesantissima. Domani sarò senza sistema immunitario. E Marta si preoccupa di Euro Disney. Non mi aspetto che capisca cosa rappresenta questo momento per me. Ma ignorare la mamma, la sua pleurite… con questo freddo…

Argino i pensieri. E taglio corto: “penso che sei grande abbastanza per capire se in un momento come questo è opportuno che tu vada a Euro Disney…”. Se non capisce da sola, non lo capirà comunque.

La porta si apre e riconosco i passi di Fabio.

 

(26 dicembre 1999)

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TRAPIANTO DI MIDOLLO: DI NUOVO IL PERSECUTORE

prima leggi:TRAPIANTO DI MIDOLLO: LA MAMMA

prima leggi:L’INCUBO: CACCIA ALL’AGGRESSORE SENZA VOLTO (parte 2)

Fabio esce dalla stanza accompagnato da due occhi che sprigionano energia. L’energia che precede i grandi eventi e che prende le viscere. L’energia che, dopo mesi di attesa si prepara a esplodere. L’energia che farà sembrare l’ultimo passo molto lungo. Lunghissimo. Interminabile. È l’ultimo giorno. Il giorno di riposo dopo la fine della chemioterapia. Il sole è alto. Le saracinesche arrotolate. La luce invade la camera. Sono pronto. Forse troppo.

“Alexandros” di Valerio Massimo Manfredi è la mia distrazione. Una quasi-metafora dei miei ultimi due anni. Quelli della lunga preparazione per il trapianto. Quelli della visione. Della decisione. Del coraggio e della determinazione di seguirla. Dopo poche pagine Alexandros è l’unica cosa alla quale riesco a pensare. E il tempo comincia a volare. Per fortuna. A mezzanotte gli occhi rifiutano le parole. Chiudo il libro. Lo appoggio sul letto all’altezza delle gambe. Mi addormento sereno con un unico pensiero. Domani mattina rinasco. Comincerò di nuovo, ripartendo da zero. Fabio entrerà con le sacche di cellule staminali. E sarà nuova vita. Rifarò cose antiche. Già vissute. Sarà una seconda prima volta. L’emozione sarà fortissima perché ogni piccolo spazio di autonomia sarà uno spazio riconquistato. Il senso di 13 anni di lotta si svelerà in pochi istanti. Quelli dell’infusione delle staminali. Sarò all’altezza. Chiudo gli occhi e mi vedo camminare da solo, guidare la macchina. Le immagini si sfocano. Si confondono. Il sonno prende il sopravvento.

Le mani sono fortissime. Freddissime. Stringono con forza la gola. È l’alba. La luce entra dalle finestre con decisione. Sono sdraiato sul lato sinistro della schiena. La spalla destra leggermente sollevata. Capisco cosa stia succedendo.

Continuano a stringere. La potenza della morsa è inaudita. Mi manca l’aria. Socchiudo gli occhi. Vedo le braccia. Le seguo fino alle spalle, al collo. Cerco il viso. Che non c’è. Al suo posto il nulla. Il persecutore è tornato. Proprio oggi. Mentre stringe con veemenza mi rivolgo al nulla. Senza parlare.

“Non puoi. Non puoi tornare proprio oggi. Io sto per rinascere. Non mi fermerai. Il tuo tentativo non mi fermerà. Stai perdendo. Capisci? Stai perdendo. Lo capisci? Non hai speranza alcuna. Ti conosco oramai. Mi aggredisci proprio ora, proprio stamattina perché sai che funzionerà. E se anche avessi avuto un minimo dubbio annidato in qualche remoto angolo della mia mente, se anche ce l’avessi avuto, è evaporato. Hai paura. Stringi. Stringi pure… “.

Stringe con tutte le energie. Sto per cedere.

Distolgo lo sguardo dal nulla. Chiudo gli occhi. E con calma, una calma inaspettata, sentenzio: “se non mi lasci in pace, ti uccido”.

Improvvisamente la morsa alla gola svanisce. Il persecutore non è più lì.

(Dicembre 1999)

 

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TRAPIANTO DI MIDOLLO: LA MAMMA

prima leggi: TRAPIANTO DI MIDOLLO: LA CHEMIOTERAPIA

Non risponde.

Immobile. Ai piedi del letto. Mi guarda con ostinazione. Con occhi tristi. Tristissimi. Una tristezza che non conosce profondità.

“Mamma, da quanto tempo sei qui?”. La mia voce ha la forza di un sussurro.

Rimane in silenzio nella stanza immersa nella semi oscurità. Le saracinesche abbassate lasciano filtrare linee tratteggiate. Fuori il tempo è infame.

“Mamma, vai a casa. Sono troppo stanco per parlare…”.

“Ma io voglio solo guardarti. Mi basta…”.

“Mamma, pensa alla pleurite… Con questo gelo non ti fa bene uscire…”.

“Ma ti devo portare il ricambio…”.

Florenzo ha cominciato le ferie oggi.

“Manda la Marta. O Alessandro…”.

“Mamma… Vai a casa…”.

La mamma non perderà un giorno della chemioterapia. Marta e Alessandro non si sono ancora fatti vedere. Di Alessandro mi sorprenderei del contrario. Di Marta mi sorprende il fatto che non chiuda la mamma in casa.

(Dicembre 1999)

 

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TRAPIANTO DI MIDOLLO: LA CHEMIOTERAPIA

prima leggi: TRAPIANTO DI MIDOLLO: IL RICOVERO

Chemioterapia a dosaggio mega. Il suono è inquietante come lo è il nome. L’impatto non può che essere devastante.

Il primo giorno passa senza sorprese. La botta arriva il secondo giorno. Mi sveglio. Ma non completamente.

La stanza sembra più grande. No. Sembro più piccolo io. Boh. Mi sento leggero. La testa è leggera. No. È la mente ad essere leggera. Libera. Libera di fare quello che vuole. Andare dove desidera. All’esame di maturità. Devo parlare di Oscar Wilde. Alla destra del commissario di inglese, il commissario di chimica. Indossa vestiti e accessori rosa. Come faccio? Devo dire che Oscar Wilde è gay. Come faccio? Dico omosessuale? Lo chiedo a Grillo. Per fortuna che è arrivato. Trova sempre una soluzione. Mi guarda. E comincia. “Siete i soliti coglioni. Non mi date ma retta. Vi ho sempre detto che nel combattimento a terra vi dovete alzare solo quando l’arbitro vi tocca. Sennò l’avversario vi fotte”. Obietto. Cerco di obiettare. “Senna sapeva che non c’era spazio. Ha fatto apposta”.

L’infermiere mi porta il pranzo. Mi addormento.

Mi sveglio. Forse. “Pinunana batta”. Detesto il rumore del temporale. Soprattutto quando sto rientrando dalla nonna seduto nel cestino appeso al manubrio della bicicletta della zia Gege. Sono quasi arrivato. Spingo sui pedali con tutta la forza che mi rimane. Il resto l’ho lasciata lungo i 10 km di salita. I muscoli delle gambe bruciano. Sembrano sul punto di esplodere ad ogni colpo di pedale. Passo del Tonale. Ci sono quasi. “Dai cazzo papà! Non puoi mollare ora! Il passo è lì! Sono anni che vuoi raggiungere la Forcola! Abbiamo passato il nevaio…”. La maestosità della montagna mi ha invaso. Non riesco a pensare ad altro mentre la metropolitana mi riporta verso casa. Suono il campanello. La mamma apre la porta con uno sguardo triste. “Domani non vedrai correre il tuo Villeneuve”. La bocca coperta da una mascherina. Boh.

Perché la mascherina mamma? Sgrano gli occhi. Vedo i suoi incorniciati dalla calottina e dalla mascherina. Le spalle strette sotto il pastrano. È lì. Immobile ai piedi del letto. Gli occhi tristi fissi su di me.

“Mamma… da quanto sei qui?”

(Dicembre, 1999)

 

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TRAPIANTO DI MIDOLLO: IL RICOVERO

Prima leggi:LA PREPARAZIONE AL TRAPIANTO: IL CATETERE VENOSO CENTRALE

Calzo il soprascarpe sinistro. Fatto. Mamma, Florenzo, il badante filippino di turno, e io siamo pronti. Perfettamente isolati dalla calottina, dalla mascherina, dal pastrano e dai soprascarpe ci prepariamo a entrare. Di fronte a noi la porta reca un insegna di quattro vocali: U. T. M. O. (Unità di trapianto di midollo osseo).

È il 15 dicembre quando varco la soglia del reparto che ho inseguito per più di un anno. Ora che sto entrando le aspettative sono alte. Altissime. Nei mesi prima del ricovero il mio entusiasmo continua a crescere. Da più mi invitano a non passare dalle aspettative all’illusione. Il Prof., Giuseppe, gli amici, mamma. Mi limito ad ascoltare.

La porta dell’UTMO si chiude dietro di me. La confusione del reparto di ematologia rimane chiusa fuori. Dentro l’UTMO c’è tanto silenzio che si sente la vibrazione della speranza. Mi presento agli infermieri che mi registrano.

Entro nella stanza singola. È più essenziale delle solite. Il letto. Una poltrona in simil pelle bianca. Una cyclette. Agganciata sul muro di fronte al letto, nell’angolo in alto a destra, la classica televisione dell’Ospedale San Raffaele. Se tutto funziona come dovrebbe, tra un mese sarò a casa. Nei prossimi 30 giorni le quattro mura e i quattro oggetti saranno il mio universo. I testimoni di una trasformazione straordinaria. Sono l’unico a crederci.

Sottoscrivo le regole del reparto. Massimo due visite al giorno, non contemporanee. Consegnare qualsiasi oggetto agli infermieri. Saranno loro a decidere se consegnarmelo dopo averlo disinfettato. L’unica trasgressione è la scatola di Mak 5. Pastiglie ayurvediche antiossidanti per alleggerire gli effetti collaterali della chemioterapia. Nascondo la scatola in fondo al cassetto del comodino.

Florenzo ripone i libri, il ricambio, i biscotti Ringo nell’armadio. Io mi guardo in giro. La mamma non mi toglie gli occhi di dosso. Rimaniamo soli. Vorrebbe abbracciarmi. È pronta a violare il regolamento. Tossisce. Quella maledetta pleurite non la abbandona.

“Ci vediamo domani”. La voce tristissima soffocata dalla mascherina. Gli occhi più eloquenti di qualsiasi parola.

Rimango solo. Come l’attimo prima dell’inizio dei combattimenti di judo. La sensazione è così reale e familiare che per un istante mi sembra di sentire l’odore del sudore, la puzza dei judoji intrisi del sudore accumulato da settimane. L’attimo è lungo quattro giorni. Quattro giorni di esami. L’ultimo controllo prima di partire.

Il 19 dicembre, una gelida mattina saluta l’entrata in camera degli anestesisti. Installano il catetere venoso centrale. Escono. Entra un infermiere con una sacca di farmaco. È la chemioterapia. Si comincia. Ho solo certezze. Migliorerò come non sono mai migliorato. L’unica incognita: il tetto del miglioramento. Termini di paragone: nessuno. Sono la terza persona al mondo con la CIDP che si sottopone a un trapianto di midollo autologo di cellule staminali mesenchimali.

(Dicembre 1999)

 

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CATANIA: AEROPORTO FONTANAROSSA … SI DECOLLA

Febbraio 2010. B2 Axioma diventa consulente di reputazione di SAI8, il gestore del servizio idrico integrato della provincia di Siracusa. In poco più di un mese le trasferte a Siracusa diventano settimanali. Viaggiando in aereo, imparo le regole di imbarco dei disabili. Tutto, naturalmente, accade con la compagnia del badante di turno.

Come tutti, comincio dal check in. Di fronte all’addetto, parte la lunga catena di passaggi che mi porteranno alla poltrona assegnata ai disabili sull’aereo. Registrazione della richiesta di assistenza. Registrazione della carrozzina come bagaglio. Parcheggio in “Sala amica”, la sala degli imbarchi assistiti. Chiamata del volo. L’addetto all’assistenza che mi accompagna al gate.

All’imbarco spesso passo per primo. Come da procedura. Prima di entrare nella carlinga, che sia dal finger o dal mezzo di assistenza con montacarichi incorporato, passo sulla carrozzina di servizio. Bassa, stretta, scomoda. Realizzata per percorrere i pochi metri del corridoio che, come un canyon tra le file di poltrone, separano il portellone dal posto per gli invalidi.

Avviene tutto secondo procedure studiate, provate e certificate. Le procedure sono sacre. Scolpite nella pietra. Violarle, aggirarle è impossibile. Anzi, vietato. Vietatissimo. L’aeroporto ha la responsabilità del disabile. La parola d’ordine è: nessun rischio.

Ore venti di un giovedì di luglio. Il finger si apre davanti alla mia carrozzina. Marco, l’addetto all’assistenza, la trattiene. Siamo nel punto più ripido. Richard, il badante dell’Ecuador, cammina ciondolando alla mia sinistra con la tracolla, la borsa con il computer, il suo zaino. All’aeroporto Fontanarossa di Catania i disabili si imbarcano per primi.

Ho perso il conto delle volte che sono passato dall’aeroporto alle pendici dell’Etna. Sono tante. Talmente tante da avere conosciuto tutti gli assistenti all’imbarco. Con alcuni i confini della semplice conoscenza sono stati superati. Tanto che se sanno che sono di passaggio si fanno cambiare il turno per rivedermi. Marco è quello con cui sono in maggiore confidenza.

Fuori dal portellone anteriore, il finger si allarga in una piccola piazzola dove si incrociano addetti alle pulizie, addetti alla stazione, hostess, steward, assistente allo scalo, operatori di carico. Ognuno con un compito. Definito da procedure collaudate.

“Non c’è ancora?”. Marco commenta laconico mentre prende la radio e informa la sala amica che la carrozzina di servizio non è ancora arrivata.

“L’abbiamo richiesta cinque minuti fa”, interviene la capo equipaggio. Indossa la divisa Alitalia senza la giacca verde. Mora con i capelli tagliati appena sopra la spalla. Viso affabile nonostante i lineamenti spigolosi. Occhi decisi.

I minuti passano. Al gate comincia l’imbarco. E i passeggeri sciamano lungo il finger. Per fermarsi a un metro da me. Dietro la banda che la capo equipaggio ha appena tirato attraverso il corridoio. Le procedure sono procedure. Devo essere imbarcato per primo. I minuti passano.

Marco contatta la sala amica. Sembra che in tutto lo scalo ci sia un’unica carrozzina di servizio e che si sia scatenata la caccia. Marco, la capo equipaggio e io scambiamo alcune battute. Richard ciondola il suo corpaccione alla Fred Flinstone da una gamba all’altra. I passeggeri attendono la carrozzina con impaziente serenità.

Non ho mai voluto che la CIDP mi ostacolasse. Non ho mai voluto che i miei limiti ostacolassero gli altri: parenti, amici, estranei. Nelly. Essere il blocco dell’imbarco comincia a infastidirmi. Non per imbarazzo. Perché i passeggeri dipendono da me. E io dipendo da una situazione che non controllo. Fino ad ora.

Mando Richard a depositare al nostro posto borse, pedane e cuscino. Le battute con Marco e la capo equipaggio, intanto, si sono trasformate in una conversazione sulla Sicilia. Richard emerge dalla carlinga. Si piazza a un paio di metri dalla carrozzina. Riprende a ciondolare. I minuti continuano a passare. Sono diventati venti. E della carrozzina di servizio nessuna traccia.

Chiamo Richard.

“Marco, ci vediamo la settimana prossima”.

“O-ok…”. Marco mi saluta confuso.

Metto il braccio destro intorno alle spalle di Richard. Che mi afferra pantaloni e cintura con la mano sinistra. In un attimo sono in piedi.

“Può portarla nella stiva”, comunico all’addetto facendo cenno alla carrozzina.

“Cosa fa!?”. Il capo scalo mi apostrofa.

“Vado al mio posto…”

“Le procedure…”, cerca di intervenire la capo equipaggio

La interrompo bruscamente. “Mi muovo sotto la mia responsabilità”.

“Ma…”, Riprova la capo equipaggio.

La blocco con un’occhiata perentoria e rassicurante.

“Facciamo decollare quest’aereo”. Ho messo fine a qualsiasi obiezione.

L’imbarco è terminato. Il portellone si è chiuso. L’equipaggio ha dato tutte le istruzioni. I passeggeri sono tutti seduti con le cinture allacciate. I propulsori stanno aumentando la potenza. Il finger si stacca dalla fusoliera. La capo equipaggio procede a passo di marcia verso la coda. Sta scrutando le ultime file. Mi vede. Si fa seria. Mi raggiunge. E mi dà la mano.

“Grazie. Grazie di tutto”

“Si figuri, l’avrebbe fatto chiunque”

“Grazie ancora”. Sorride. Si volta. E riparte verso la prua.

Fa pochi passi. Improvvisamente si ferma. Temporeggia un istante. Si volta di scatto. Fa un passo verso di me. Mi guarda negli occhi e dice: “no! Non è vero. Lei è un grande”.

 

(Luglio, 2010)

 

NON CE LA FACCIO PIÙ

Prima leggi:DALL’INTERFERONE AL TRAPIANTO DI MIDOLLO 

Mi hanno fregato. Oggi sono arrivati prima. Anzi, quasi subito. Febbre, tremori, dolore alle ossa. Non si sono palesati con la solita progressione. Mi hanno aggredito. Con veemenza. Pochi minuti dopo la puntura di interferone mi sto trascinando verso il letto.

Da tre mesi l’interferone mi tiene compagnia. Ogni fine settimana. Dopo cena si fa largo tra le fibre del gluteo. Viene assorbito. Tre ore dopo si presentano gli effetti collaterali. Spedisco una Tachipirina a contenerli. E vado a dormire. La domenica recupero. Da tre mesi tutti i fine settimana sono immolati all’interferone. Nessuno escluso. Ma, soprattutto, nessun effetto sulla CIDP.

Mi lascio cadere sul letto. Stanco. Demoralizzato. Mi sdraio. Sistemo il piumone. Appoggio la testa sul cuscino. Tremori e dolore arrivano alla fase acuta. Prendono il controllo. Chiudo gli occhi. Mi arrendo agli effetti collaterali. Non oppongo resistenza. Lascio che mi attraversino.

Sono stanco. Stufo. Gli anni di lotta alla CIDP si fanno sentire. All’improvviso. Come il dolore dell’interferone. Un peso mi schiaccia l’anima. Inaspettato. La pressione aumenta. Che senso ha? Che senso ha combattere?

Il respiro si allunga. Si fa più profondo. Più lento. Nel petto si gonfia il disagio. Lungo. Profondo. Lento. Inspiro dal naso. Lungo. Profondo. Lento. Espiro dalla bocca. Lungo. Profondo. Lento. Disagio, tensione, frustrazione. Si mescolano nel petto. Lungo. Profondo. Lento.

“Perché?”. Sussurro. Tremando. Non è l’interferone.

Lungo. Profondo. Lento. Nel petto le prime crepe. Il respiro si incasina. Naso. Bocca. Naso. Naso. Bocca. Naso. Bocca. Bocca. Bocca. Lungo. Profondo. Lento.

La pressione aumenta. Voglio urlare tutta la mia frustrazione. Il peso è allucinante. Anni di visite, terapie, ricoveri, aghi che cercano e non trovano vene per aspirare sangue, abocat che cercano e non trovano arterie per infondere immunoglobuline, elettromiografie. Anni di adattamento, a imparare da un cane come bere il caffè dal bicchierino, a inventarmi un modo per mettere il dentifricio sullo spazzolino, tenere la forchetta, aprire la porta di casa. Anni di accettazione di una condizione debilitante che mi ha costretto a rinunciare a fare e accettare di dipendere da qualcun altro per allacciare i polsini prima, poi i bottoni, poi la cerniera, poi le stringhe, poi le calze, poi ogni mese una nuova rinuncia. Anni di gestione della malattia. Proteggendo la mamma. Combattendo contro papà. La sua morte. Anni di lotta. Anche contro le illusioni dei miglioramenti. Anni controllati e liberati da una puntura di interferone. Come se l’ago avesse bucato l’involucro che ne custodiva la sofferenza. Naso. Naso. Bocca. Lungo. Profondo. Lento. Voglio urlare. Gli anni di sofferenza mi bloccano. Mi tagliano il fiato.

Arriva. Finalmente arriva. Si gonfia. Cresce. Supera la palpebra e rotola giù per la guancia. Poi un’altra. Un’altra ancora. Sempre più spesso. Non oppongo resistenza. Le lacrime diventano un rivolo. Piango. Il respiro si rompe. I singhiozzi rompono definitivamente il respiro. Lungo. Profondo. Lento. Veloce. Corto. Piango a dirotto. Sommessamente.

Fuori dalla camera sento dei passi. Si fermano dietro la porta. Piango e singhiozzo sommessamente. Aspetta dietro la porta. E ascolta. La maniglia si piega lentamente. Lentamente la porta si apre. La lama di luce taglia il buio. Marta!

Esita. Poi si avvicina al letto.

“Ricky, cosa c’è?”. Parla sottovoce.

Veloce. Veloce. Profondo. Naso. Naso. Bocca. Piango. Meno sommessamente.

“Ricky, cosa c’è?”. Seduta sul bordo del letto continua a parlare sottovoce.

Piango. Sommessamente.

“Ricky, cosa c’è?”. Sussurra.

Passano pochi lunghissimi secondi. Marta mi abbraccia. La sua guancia si appoggia delicatamente alla mia. Le mani mi stringono le spalle.

Sto condividendo la mia frustrazione. Disagio, sofferenza e dolore esplodono.

Piango tutta la mia disperazione. Non trattengono nulla.

La moquette del corridoio attutisce il rumore dei passi. La porta della camera si apre un po’ di più. Mamma…

“Rick…”

Marta lentamente volge lo sguardo verso la sagoma illuminata dal lampadario nel corridoio. Avvicina l’indice alla bocca e soffia delicatamente “sssssh”.

Poi, delicatamente, indica un punto immaginario del corridoio. Mamma capisce. Si gira. Abbassa la testa. Si allontana accostando la porta.

Non ho più energie. Il pianto è diventato un soffio sottile. La disperazione ha trovato le riserve più segrete. Ne ha fatto razzia.

Marta ci riprova.

“Cosa c’è Ricky”. Il sussurro la fa sembrare lontanissima.

“Non ce la faccio più…”.

“Lo so…”.

Rimaniamo lì. Fermi.

Mi addormento. Con mia sorella che mi abbraccia.

Non siamo mai stati così vicini.

——————————

Domenica mattina. Mi trascino verso il bagno. Mi siedo sul water. Alzo la testa lentamente. I miei occhi incrociano il mio sguardo nello specchio. Abbasso il mio. Gli occhi gonfi mi riportano alla sera. Devo affrontarmi. Rialzo lo sguardo fino ad incrociarmi.

“Va tutto bene…”. Mi dice.

“Va tutto bene…”. Rispondo.

“Sei pronto a scegliere?”. Mi domanda.

“Come sempre…”. Rispondo.

“La vita. Con dignità. Sempre”.

Il serbatoio di energia si sta ricaricando.

(Febbraio, 1998 circa)

 

EROI QUOTIDIANI

Stiamo conversando amabilmente da mezz’ora. Da quando ci siamo seduti a questo tavolino infernale. Piccolo. Attaccato al muro. Come la mia spalla. Schiacciata contro l’intonaco per cercare di tenere le gambe sotto il ripiano di legno. Avrei già cambiato posto se non fosse per il timore ingiustificato di far cadere la tensione della chiacchierata. Non ho mai raccontato la mia quotidianità senza l’uso delle mani con cosi tanta naturalezza. Soprattutto alla prima uscita. Rita ci è riuscita. La domanda diretta. Pronunciata attraverso il suo sorriso sempre acceso, sotto gli occhi spalancati alla vita. Offerta senza curiosità morbosa ma per arricchirsi ascoltando il racconto di un’altra esistenza. Carnagione scura sotto un casco di capelli nerissimi. Minuta. Arguta e raramente banale. Rita fa succedere le cose con semplicità.

I limiti nel vestirmi. I problemi a mangiare. Spazzolarmi i denti. Le conseguenze sulle relazioni. La fine della storia con Daria. Gli amici straordinari. Vivere la vita con il rispetto che si deve a un dono. Non mollare mai. Racconto i fatti. Racconto le sensazioni e le emozioni. Racconto le prospettive e come le affronterò.

“Ricky, sei quello che chiamo eroe quotidiano”.

Gli occhi scuri mi scrutano con delicatezza per incrociare la mia reazione. All’ascolto il suono di quelle parole inaspettate. Eroe quotidiano. La mia inclinazione vanitosa mi fa sentire l’armonia del suono. Che gracchia appena le ascolto con sincerità.

“No, Rita. Non sono un eroe. Gli eroi sono altri. La vita è così complicata che già solo alzarsi la mattina è un atto eroico. Ma questo lo facciamo tutti. Pensa a quelle persone che aprono gli occhi ad ogni sorgere del sole sapendo che la loro giornata sarà identica a quella precedente. Uguale. Tutti i giorni sempre la stessa. Tutti i giorni. E che non possono rischiare di cambiare perché hanno il mutuo da pagare, i figli da mandare a scuola. Non penso che da bambini sognassero di fare una vita così. Eppure, ogni mattina si alzano e fanno quello che devono fare. Per senso di responsabilità. Loro sono gli eroi quotidiani. Io sono un privilegiato. Faccio il lavoro che ho sempre desiderato. Lo faccio bene, penso. Di fronte al loro coraggio, mi imbarazza pensare di essere un eroe”.

Sono passati quasi 20 anni. Sono su una seggiola a rotelle e continuo a pensare che gli eroi quotidiani sono altri. Ne ho conosciuti molti. Tanti tra i badanti che ho incrociato. Uomini che hanno lasciato le sicurezze, seppur minime, spesso moglie e figli, per aspirare a una vita migliore in paesi che si dimostrano spesso ostili.

 

(Novembre, 1994 circa)

 

UNA CADUTA, LA REAZIONE DI NELLY

Il portone di via Bartolomeo Giuliano si chiude pesantemente alle nostre spalle. La macchina ci aspetta dall’altra parte della strada. Parcheggiata a cavallo del marciapiede. Nelly mi precede. Si avvia verso sinistra, dove il marciapiede è più basso. Da dove posso scendere più agilmente. Misuro i passi mentre mi avvicino al varco tra due auto parcheggiate. Arrivo con il piede sinistro. Quello giusto. Rallento. E appoggio il piede destro sull’asfalto. Sono giù. È andata bene un’altra volta.
Siamo andando al cinema a vedere “The Hours”, il racconto della depressione di Virginia Wolffe interpretata, pare, da una magistrale Nicole Kidman. Nelly ci tiene tantissimo. Abitiamo insieme da un mese. Mi sono trasferito da lei una settimana dopo ladecisione di sposarci. Ho negoziato un po’ di spazio nei suoi armadi. E ho lasciato la mia tana di via Mac Mahon.
Dal marciapiede continuo a muovermi verso la macchina. Nelly mi sta seguendo. Attraversiamo via Bartolomeo Giuliano. Sono concentrato sul movimento delle gambe. Come al solito da quando ho ripreso a camminare dopo il trapianto di midollo. Appoggio il tallone del piede destro. Sposto il peso in avanti spingendo con la gamba sinistra. Appoggio la pianta del piede destro. La spinta della gamba sinistra si esaurisce. Arriva il momento più delicato. Il passaggio del peso dalla gamba destra a quella sinistra. Stacco la gamba sinistra. Il ginocchio della gamba destra si deve piegare, ma leggermente. Un movimento appena accennato, perché non ho sufficiente forza nella gamba per sostenere una flessione normale. Comando l’azione. La gamba non obbedisce. Rimane tesa. Come un’asta. E come un’asta mi proietta verso l’alto.
Mi sento spingere in su, leggerissimo. I piedi si staccano dall’asfalto. Volo. Non so spiegare il motivo, ma scendendo verso la strada, ruoto. Sto per cadere sul fianco destro. Devo proteggere le costole. Faccio appena in tempo a coprire il lato destro con il braccio e a preoccuparmi della reazione di Nelly che via Bartolomeo Giuliano mi accoglie con uno schianto. Il colpo mi taglia il fiato. Oltre a procurarmi alcune leggere escoriazioni sul braccio. Mentre l’aria torna a farsi strada nei polmoni, cerco Nelly. Non riesco a percepirla. Tanto meno a percepire la sua reazione. Non può che essere agitata. Devo tranquillizzarla.
“Buono, tranquillo, stai fermo e non ti muovere”. La voce è controllata e rassicurante. Nelly è in ginocchio al mio fianco. Cerco il suo viso. Ha l’espressione della massima concentrazione.
“Ti sei fatto male?”
“Aspetta…”. Ruoto sulla schiena. Muovo la gamba destra. Nessun dolore. La spalla destra è a posto. Il gomito ammaccato. Mi siedo e faccio tre respiri lunghi e profondi. Ogni volta che inspiro provo una leggera fitta al costato destro.
“Devo avere incrinato una costola”, spiego a Nelly.
“Andiamo al pronto soccorso…”.
“Ma no, mon amour, per una costola incrinata non è necessario. E poi non è la prima volta…”.
“Cosa vuoi fare?”
“… Andiamo al cinema… Gabriele e Iolanda ci stanno aspettando”.
La reazione di Nelly è straordinaria. Vederla reagire alla caduta con prontezza, controllo e concentrazione, pronta a reagire mi riempie di orgoglio. Un’altro motivo che la rende sempre più speciale. E la consapevolezza che insieme a lei posso raggiungere qualsiasi vetta.
Quel giorno c’è stata una cosa peggiore della caduta: il film.
(Maggio, 2003)