Archivi categoria: I ricoveri

LA FINE DELL’EPOPEA DEL SIGNOR CORSARO

Prima leggi: Il tentativo di evasione del signor Corsaro

“Non vedo nessuno”, sussurra il signor Corsaro.

È stata una notte tranquilla. Tranquilla più delle altre. Ho evocato “il Petrarca” solo una volta. E mi sono riaddormentato così velocemente da non fare in tempo a sentire i singhiozzi del mio compagno di camera.

La mattina era stata uguale a tutte le altre. Sveglia, colazione, igiene, immunoglobuline endovena. Il libro per farmi compagnia nelle ore inchiodato al letto dall’ago nel braccio, la visita dei neurologi.

In piedi, ai piedi del suo letto, i neurologi sprofondano nella cartella clinica del signor Corsaro. Ogni tanto si scambiano cenni d’intesa. Ogni tanto si confrontano nella loro lingua ermetica. Consultano le analisi e gli esami, la pila di documenti che ha gonfiato la cartellina di cartone azzurro in poco più di dieci giorni. Poi, solennemente, annunciano: “bene signor Corsaro, oggi la dimettiamo, avvisiamo noi casa. E… non esca dalla camera”. Mentre si precipitano verso la porta per affrontare la prossima cartella clinica, un neurologo torna indietro. Mi guarda come aspettando che mi accorga di lui.

“Si…?”. Alzo gli occhi dal libro. Lo guardo per fargli capire che sono attento. Il neurologo esita. La mia espressione perplessa deve averlo bloccato.

“Si, …”, ripeto per incoraggiarlo.

“Scusi, signor Taverna, potrebbe pensarci lei…”. Le parole scivolano fuori dalla bocca. Cercano di essere discrete mentre indica il signor Corsaro con un cenno della testa.

Messaggio ricevuto.

“Signor Corsaro”.

“Ai suoi ordini”.

“Ho ricevuto un ordine di servizio – annuncio con un marcato tono prossimo all’emergenza – questa mattina nessuno può uscire dalla stanza”.

“Come mai? Se posso chiedere…”.

Devo trovare immediatamente un motivo che sia plausibile. Almeno per lui.

“Questa mattina un pericoloso criminale, associato al clan dei corleonesi della mafia siciliana, è stato ricoverato in questo ospedale. È scortato dai servizi segreti. L’ordine è di non uscire per permettere agli agenti speciali di controllare gli accessi al reparto senza interferenze”.

Il signor Corsaro annuisce. E rimane ai piedi del mio letto. Continua a fissarmi. Ah, mi stavo dimenticando:

“Può andare”.

Invece di sedersi sul letto, il signor Corsaro si avvia verso la porta della camera. Mi siedo sul letto per osservarlo.

Apre la porta.

Sto per richiamarlo all’ordine in modo perentorio quando il signor Corsaro si ferma, guarda attentamente il pavimento e allinea attentamente le punte delle pantofole al filo della porta. Si sporge leggermente in avanti. Gira la testa leggermente verso sinistra. Fa un leggero passo indietro. Allinea nuovamente le punte delle pantofole al filo della porta, si sporge leggermente in avanti e gira la testa leggermente verso destra. Chiudi la porta e sospira.

“Non vedo nessun agente”, mi dice facendomi capire palesemente di sentirsi preso in giro.

“Se lei li vedesse non sarebbero agenti dei servizi segreti”. Rispondo senza alzare gli occhi dal libro.

“In effetti…”, ammette il signor Corsaro.

Il signor Corsaro riapre la porta, riallinea le punte delle pantofole al filo della porta e si sporge leggermente in avanti. Passerà tutta la mattina a girare la testa leggermente verso sinistra. Poi, leggermente verso destra.

Appena dopo il pranzo il signor Corsaro lascia il reparto di neurologia del DIMER del San Raffaele. Uscendo, non mi saluta. Me l’aspettavo, un po’. Ma una parte di me, il capo di stato maggiore dell’Ospedale militare, per un attimo si è sentita offesa. E per un attimo ho pensato che tutto fosse stato frutto della mia immaginazione.

“Contento Ricky?… Si ritorna alla tranquillità!”. La voce di Raffaella, l’infermiera, mi raggiunge dal corridoio. È successo veramente.

1995

dimer

COME PRENDERE UNA VENA FACENDO UN BUCO SOLO

Prima leggi: L’INFERNO DELLE VENE 

Carlos, amico di Marcone e medico, è perentorio. Lo afferma con la tranquillità di chi sa cosa sta dicendo e, soprattutto, l’ha fatto molte volte.

“… Io la vena la prendo sempre facendo un buco solo”.

Carlos e io ci siamo trovati da Marcone al “Vicolo”, l’appartamentino nel “Vicolo dei lavandai”, uno degli angoli più suggestivi di Milano. Il “Vicolo” è il nostro ritrovo, l’antesignano della passione di Marcone per i locali. Tutte le sere, quasi tutte, Marcone chiama per chiedere: “Vicolo?”. Sempre la stessa domanda. Scontata. Come scontata è la mia risposta: “a che ora?”

“Come è andato il ricovero?” Marcone è il primo a chiedere. Sempre. Il primo che chiamo appena rientro a casa dopo ogni ricovero. Sempre.

“Come al solito. Immunoglobuline e lettura”. Un bollettino scarno. Anzi.

“Le vene cominciano a darmi dei problemi – continuo – per farmi un prelievo e per inserirmi l’abocat in media ci sono voluti tre buchi”.

In realtà sono un paio di ricoveri che gli infermieri stanno cominciando a dannarsi dietro le mie vene.

“Bah … incapaci”, interviene Carlos.

“Perché? “, domandiamo in coro Marcone e io.

“Perché io la vena te la prendo con un buco solo…”, risponde Carlos ostentando sicurezza.

“Nooo! Davvero? Come fai?”. Sono estasiato. E curiosissimo. Deve essere una questione di tecnica evidentemente. La sola idea di risparmiare le mie braccia da un calvario e gli infermieri dalla depressione, mi entusiasma.

Carlos conclude: “semplice. Infilo l’ago e ravano finché non trovo la vena buona.

Marcone scoppia nella sua risata fragorosa.

Io mi sento come risvegliato da lo stridio di unghie sulla lavagna.

“Quindi…”, abbozzo.

“Scherzavo”. Carlos sorride.

Marcone. Continua a ridere.

IL PROF.… UN RICOVERO QUASI NORMALE.

Il modello è consolidato. Ricovero nel tardo pomeriggio del venerdì. Dimissioni la domenica sera. In mezzo due giorni di immunoglobuline endovena. Tutto procede. Anzi no. La domenica pomeriggio ho uno sbalzo di pressione. Me dimettono lunedì mattina.

Lunedì mattina. Fatico a svegliarmi. Fatico a tenere gli occhi aperti. Continuo a riaddormentarmi nonostante i rumori del reparto che si anima. Ho passato due notti infernali. Il mio compagno di stanza, un anziano signore di circa settanta anni, ha russato incessantemente come un bue impestato di catarro. Tra un sonno e un risveglio aspetto che passi Giuseppe con la lettera di dimissioni. Che arriva puntualmente con il giro dei medici.
“Stamattina c’è Il Prof. – esordisce Giuseppe – ti vuole vedere. Appena finisce ti passa a visitare”.
Annuisco. Incontrare Il Prof. è un piacere al quale non mi sottraggo mai. Giuseppe esce dalla stanza. Io mi riaddormento.
Mi risveglio nel primissimo pomeriggio. La frenesia del reparto è cessata. I rumori di carrelli, di barelle, di infermiere che coordinano l’attività e che impartiscono ordini sono svaniti dal corridoio, sostituiti dal chiacchiericcio dei pazienti. Mi alzo e mi avvicino alla porta della camera. L’orologio del posto infermieri segna le quattordici appena passate.
“Porca miseria – il pensiero mi schizza attraverso la mente – rischio di passare un’altra notte in ospedale”. Mi avvicino a Maurizio, un infermiere gigantesco di una bontà incommensurabile, e gli chiedo del Prof. Chiama l’ambulatorio. “Quando termina le visite ambulatoriali arriva”. Ok. È ancora nel DIMER. Torno a letto. E cerco di leggere. Dopo pochi secondi sto dormendo.
Mi risveglio che l’orologio sul muro segna le 16.00. Alle 17.00 scade il tempo per le dimissioni. Salto giù dal letto e irrompo nel corridoio mentre sta passando Giuseppe.
“Il Prof.?”. Cerco di contenere l’irritazione.
“È in ambulatorio…”.
“Lo so dove è, Giuseppe. Potresti ricordargli che lo sto aspettando?”
“Meglio di no, Riccardo. Porta pazienza”.
“Giuseppe, è tutto il giorno che porto pazienza. Fammi questa cortesia, avvisalo. Anche perché non ho intenzione di passare un’altra notte in ospedale, a costo di dimettermi sotto la mia responsabilità. Diglielo pure”.
“Ok, Riccardo. Io lo faccio. Ricordati però che ti ho avvertito, conosci il suo carattere”. E si avvia lungo il corridoio verso la porta in fondo.
Mentre Giuseppe diventa sempre più piccolo, un paziente che ha sfacciatamente ascoltato il nostro scambio si avvicina. E mi ammonisce. Mi spiega di quanto bene conosca Il Prof. Di quanto abbia un brutto carattere. Di quanto non si presti a simili ricatti.
“Anzi, sai cosa rischi?”.
“Cosa rischio?”. Non so perché glielo sto domandando. Lo sto ascoltando a mala pena. E quel poco che percepisco non solletica in alcun modo il mio interesse.
“Rischi che per ripicca ti faccia aspettare fino a domani. Lo conosco troppo bene”. Siamo uno a fianco all’altro eppure la sua voce mi sembra lontanissima.
Pochi minuti dopo che la porta del reparto si è chiusa dietro le spalle di Giuseppe si riapre di fronte a Il Prof. Che avanza deciso lungo il corridoio. L’espressione concentrata. Tesa. Come sempre. Con le quattro rughe sulla fronte che manifestano la sua missione: “sto pensando a voi”. Gli occhi di ghiaccio fissati sul pavimento di linoleum color carta da zucchero sono un messaggio: “non mi disturbate, sto lavorando per voi”. Sembra sempre tra l’incazzato e l’assorto. Io sono sempre stato convinto che invece sta pensando ad un’elettromiografia, a un paziente particolare, a una terapia. Insomma la neurologia è il suo centro di gravità.
“Ora sono cazzi tuoi”, mi sussurra il paziente. Non riesco a capire se il mio “compagno di reparto” sia divertito o mi stia mettendo in guardia. Troppo tardi. Il Prof. ci ha raggiunti. Alza lo sguardo dal pavimento. I nostri occhi si incrociano. Sorride. E destabilizza il paziente.
Mi visita sommariamente. Mi chiede come mi sento. “Tutto bene Prof.”.
“Bene, vada pure a casa”, mi dice dandomi una pacca sulla spalla. Sono passati pochi istanti da quando siamo entrati in camera.
Esco dalla camera con lo zaino in spalla. Saluto gli infermieri. E anche il paziente che è rimasto davanti alla mia porta ad assistere quasi impietrito dalla cordialità del Prof. “Scusa, ma tu, chi cazzo sei?”, mi domanda scrutandomi come se cercasse la risposta prima di sentirla. “Io? Uno…”.
(1995 circa)
dimer

CAVIA AL DIMER

Tendo ad essere tollerante. Tendo a contenere le incazzature. Al DIMER ci hanno messo poco ad accorgersene. La richiesta dell’infermiera quindi non mi sorprende.

“Buongiorno Signor Taverna”. È l’infermiera che non riesce a darmi del tu.
“Ciao”. Io insisto con il tu. Dietro l’infermiera fa capolino una ragazza con una divisa bianca e i profili blu. È una studentessa del corso di infermiera che sta facendo tirocinio in reparto.
“Signor Taverna, posso fare pratica con lei a infilare l’abocat?”
Accetto di buon grado. Tanto, sono a letto per la flebo di immunoglobuline e la sensibilità delle braccia è bassa. Le condizioni sono ideali. E ho il sospetto che l’infermiera abbia pensato la stessa cosa.
Espongo il braccio destro alla studentessa. Mi posiziona il laccio emostatico sotto il gomito. Esplora le vene sotto il polso. Sceglie il bersaglio. Appoggia l’ago guida. Spinge. Entra. È in vena. Lentamente estrae l’ago guida per lasciare la cannula in vena.
“Oh!” L’esclamazione della studentessa è contenuta. Come se avesse versato un po’ d’acqua.
La guardo. Mi restituisce un’occhiata imbarazzata.
“Penso che si sia rotta…”
“Cosa?”. Lo dico automaticamente conoscendo già la risposta.
“La cannula…”. La cannula si è rotta in vena.
La prossima volta che una studentessa entrerà in camera farò finta di dormire.
L’infermiera professionale prende il comando. In un quarto d’ora di discreta sofferenza estrae la cannula. La parte rotta attaccata per lo spessore di un cappello. La vena? Rotta anche lei.
(1993-1998)

UGO, L’AMICIZIA VOLUTA E STUDIARE FINANZA AL BESTA.

Prima leggi: Ricky non si devestancare.

“Perché non sei mio amico, come sei amico di Albert?”. La domanda improvvisa è accompagnata da un pesante carico di frustrazione.

Sono prigioniero della risposta. Non posso voltarmi e andare come vorrei fare. La domanda è detestabile. Chiunque me la rivolga. Le amicizie crescono naturalmente. Non si pianificano a tavolino. Ugo ha scelto il momento giusto. La risalita in seggiovia, quella più lunga.
“Guarda Ugo. Albert ed io siamo amici perché lo siamo diventati, non perché l’abbiamo programmato. Se noi diventeremo amici lo saremo in modo diverso, cerca di capire questo semplice fatto. Comunque non so se lo diventeremo, ce lo dirà il tempo. E a prescindere da tutto la tua domanda è contraria a qualsiasi mia idea di amicizia”. Restituisco la frustrazione che è prossima all’incazzatura per il pensiero di essere stato intrappolato.

Ugo ha voluto che diventassimo amici. Con una determinazione prossima alla testardaggine. La CIDP non lo ha frenato. Più la malattia progrediva, più Ugo era presente. Spesso in modo inaspettato. Come quando aveva passato l’intero fine settimana al DIMER inoccasione del ricovero d’urgenza. E per molti anni è stato un punto di riferimento.
Il primo ricovero ha avuto quasi la dimensione di un happening. Il pomeriggio il bar della Bocconi si trasferiva nella sala ricevimento del reparto di neurologia al primo piano. Sentirmi solo e abbandonato alle incognite di una malattia ignota era impossibile. Arrivavano le “squadre” della scopa d’assi, i compagni delle discussioni sulla assurdo. Il pomeriggio mi sentivo l’ospite di una festa, con l’obbligo di intrattenere tutti. Un lavoro. Un lavoro bellissimo.
I passi nel corridoio hanno un che di familiare. Non può essere Ugo, mancano due ore al ricevimento. Invece, un istante dopo, la sua sagoma riempie la porta della camera. Senza entrare mi fa cenno di seguirlo. Entro in sala di ricevimento. È deserta, silenziosa. Ugo è seduto a uno dei tavolini agli angoli della stanza. Sul tavolino, di fronte a lui, un libro: Ezra Solomon, l’autore del testo base  di “Istituzioni di finanza aziendale”, l’esame più ostico. Quello che non riesco a passare.

“Facciamo che ti aiuto a preparare finanza”. Finanza è l’indirizzo scelto da Ugo.
Mi siedo. Senza dire nulla. Iniziamo subito e lavoriamo fino all’orario di ricevimento.

Ugo arriva in ospedale due ore prima dell’orario di ricevimento. Per venti giorni. E mi prepara meticolosamente. Dopo il ricovero mi iscrivo al primo appello. Ventiquattro. In perfetta media.
(1991, circa)

L’INFERNO DELLE VENE

Prima leggi: IL PROBLEMA DELLE VENE (EP. 1)…

Venerdì pomeriggio. Varco la porta del reparto di neurologia al DIMER. Ho tutto. Libri, libri e libri. Sono pronto per i due giorni di flebo di immunoglobuline. Sono all’ennesimo ricovero. Dai tempi del signor Corsaro sono passati un paio d’anni. Forse di più. Sono di casa.
Cammino verso il posto degli infermieri, in fondo al lungo corridoio. Sbircio nelle camere alla mia sinistra cercando di indovinare quale sarà la mia.

“Ciao Ricky! … È arrivato Ricky!”. Saluto con un cenno della mano l’infermiere dietro il bancone. Che mi sorride mentre continuo la marcia di avvicinamento. Lentamente l’espressione dell’infermiere cambia. Il sorriso si trasforma. Gli zigomi si rilassano. Le labbra si serrano. La fronte si corruga.
“Sta cercando qualcosa nella memoria”, penso distrattamente mentre arrivo al posto infermieri.
Poi cambia ancora. Da pensieroso il viso si contorce in un’espressione tra la delusione e l’incazzatura. Torna a sorridere appena lo raggiungo.
“Domani mattina sei di turno e la mia camera è nel tuo settore”. Lo dico come fosse un dogma.
“Siii, Ricky”, mi risponde l’infermiere sbuffando e ridacchiando.
“Cazzi tuoi – ribatto ridendo e sfottendo -ti tocca, io ci metto il braccio…”.

Muovo le braccia sempre meno e nei ricoveri al Besta la terapia era il cortisone a dosi massicce. La combinazione di questi due fenomeni ha indebolito e rimpicciolito le vene. Trovarle è una missione da speleologo. Prenderle con l’ago un’impresa. Inserire un abocat (il catetere in lattice che, inserito nella vena con un ago, viene lasciato in loco anche per tre giorni per avere un unico accesso nei casi, per esempio, di lunghe infusioni endovena) è un risultato epico.
Gli infermieri evitano le mie vene, se possono. Se non riescono ad evitarle, le affrontano. Entrano in camera. Chi con il piglio del samurai, pronto ad una sfida per la vita. Chi con fare circospetto come se si avvicinasse ad un cesto di serpi. Studiano le braccia. Tastano le vene. Trovano la candidata. Trattengono il fiato. Passano all’azione. L’ago buca la cute. Si avvicina alla vena. Tentativo fallito. Come accade troppo spesso la vena si rompe o porta troppo poco sangue. Di fronte al fallimento tutti gli infermieri diventano uguali. Sono perplessi. L’ansia si insinua. Secondo tentativo. Fallito.

“Faccio un ultimo tentativo, Ricky. Vige la regola del tre, poi non voglio continuare a farti del male”.
“Vai tranquillo. La fortuna è che con la CIDP ho pochissima sensibilità”.
Vedere un infermiere abbattersi, perdere i suoi punti di riferimento per le mie vene mi dispiace e mi fa sempre sentire un po’ in colpa. Per questo sopporto tutto. Non mi lamento mai. Per loro, che sono lì per me. Anche, come è capitato, quando mi hanno inserito l’abocat al dodicesimo buco, dopo quasi due ore di tentativi.
Chi, ogni tanto, becca la vena al primo colpo sfoga la tensione con un lungo sospiro per poi esultare come se avesse conquistato una vetta inviolata.
“Ho beccato Ricky al primo colpo!”. È il grido di liberazione. Un trofeo da vantare con i colleghi.

Di fronte alle mie vene ho visto infermieri trasformarsi. Come Gavino. Sardo. Ostinato. Pronto alle sfide.

Dopo tre giorni di infusione l’abocat sta irritando la vena. Bisogna cambiarlo. Daniela è venuta a trovarmi. Lei e Fabrizio non sono mai mancati. Gavino, concentratissimo, prepara tutto il necessario sul letto. Cotone, cerotto, disinfettante, abocat di due misure, garza, forbici, laccio emostatico, rasoio per depilare. Non manca niente. Daniela non esce dalla stanza. Gavino si è dimenticato di invitarla ad aspettare fuori. Evidentemente non è un problema per nessuno.
Primo tentativo. Fallito.
Secondo tentativo. Fallito.
Terzo tentativo. Fallito. Gavino supera la regola del tre. Bene. Ci consultiamo.
“Ricky ce la fai? Vuoi che chiami un altro?”
“No. Vai tranquillo. Andiamo avanti”.
Gavino non risponde. Prende il laccio emostatico e riparte.
Quarto tentativo. Fallito.
Quinto tentativo. Fallito.
Sesto tentativo. Fallito.
Settimo tentativo. Fallito.
Gavino fa un respiro profondo. Espira lentamente. Temo che sia sul punto di cedere. Invece guarda Daniela con espressione professionale e assorta.
“Scusa, senza offesa, potresti uscire? Sei vestita tutta di nero, non vorrei che portassi sfiga”.
Daniela esce di buon grado. Ridendo. Gavino è concentratissimo. Afferra il laccio emostatico e si prepara all’ottavo tentativo.
Ottavo tentativo. Successo.
“Lo sapevo che portava sfiga”, esclama Gavino senza crederci troppo.

DIMER, LA DEPANDENCE DI CASA

Un ricovero ogni 3 mesi per infondere immunoglobuline. Naturalmente endovena. Un ricovero di 2 giorni. Naturalmente inchiodato a letto. Il lato positivo del ricovero c’è. Lo staff di infermieri del reparto di neurologia è giovane. Sgobbano come dei matti senza mai negare un sorriso o una battuta discreta. Quando sono in confidenza, le battute sono più sfacciate. Da parte mia ho imparato a non lamentarmi anni fa, molto prima che nella mia vita si insinuasse la CIDP. E “Lui”, con lasua storia devastante, me lo aveva ricordato nel caso mi passasse di mente ancheper un solo attimo. Ho imparato anche il rispetto del lavoro altrui. E gli infermieri devono gestire un intero reparto, non un singolo paziente. Rispondo alle battute. Chiacchiero, rido e scherzo. È tutto spontaneo.

Raggiungo un accordo con i medici: ricovero nelle fine settimana. Accettazione il venerdì, nel tardo pomeriggio. Dimissioni la domenica sera dopo l’infusione dell’ultimo flacone di immunoglobuline. O il lunedì mattina se nel corso della somministrazione la pressione ha subito qualche sbalzo. Sacrifico il fine settimana per non perdere giorni di lavoro. Un sacrificio che non mi costa: amo il mio lavoro.
Un sacrificio che non mi costa. Al DIMER rivitalizzo un’antica passione: la lettura. È Andrea che mi restituisce il gusto di un libro. Viene a trovarmi con un regalo: “Il Socio” di John Grisham. Lo appoggio distrattamente in fondo al letto. La compagnia di Andrea è sempre stimolante e del libro mi dimentico in un istante. Subito dopo cena, solo in camera, mi guardo in giro annoiato. Solo “Il Socio” cerca di intercettare il mio sguardo. Far sentire la sua presenza. Lo guardo. Mi risponde. Lo afferro. Lo appoggio sul comodino da notte fonda. Finito. I libri sono i miei compagni più fedeli nei ricoveri. Mi sveglio. E leggo. Il venerdì pomeriggio prima dei ricoveri faccio sempre un passaggio in libreria. E la volta che non ho fatto in tempo uscendo di casa triste la costa di un libro ha attirato la mia attenzione dalla mensola: “Il ciclo delle fondazioni” di Isaac Asimov. Me lo aveva regalato Sabina, del clan Bucciarelli. Era Natale. Ho dovuto fare buon viso. Sabina è un’amica straordinaria, una sorella. Ma ai tempi non mi conosceva ancora bene: odio la fantascienza. Asimov ha aspettato sulla mensola un paio di anni. Con pazienza. Poi mi ha fatto innamorare di lui e amare la fantascienza. “Ma tu non parli mai?”. Guardo il mio compagno di stanza da sopra il libro. Non rispondo. Da perfetto cafone. Ma R.Daneel sta arrivando su un pianeta sconosciuto chiamato Terra. Due giorni di ricovero. Tre libri. Poco sonno. Un compagno di camera palesemente incazzato.
“Ciao Ricky! Come stai?”

“Bene grazie! Tu?”
“Cosa mi racconti…”, mi domanda l’infermiere mentre mi accompagna in camera. Io racconto, lui racconta.

Tutti i venerdì pomeriggio incominciano così quando entro al DIMER. Sono nella mia depandence.

IL TENTATIVO DI EVASIONE DEL SIGNOR CORSARO

PRIMA LEGGI: STORIE DEL DIMER (EP 1)… Il signor Corsaro (parte 4)

“Fermo! Dove va? Torni indietro! … Torni indietro subito!”.

Saranno le 21. Non lo so. Ho messo l’orologio nel cassetto del comodino perché oggi mi hanno cambiato l’abocat, la cannula che rimane in vena tra i 2 e i 3 giorni. E me l’hanno messa sul polso sinistro. Il richiamo dell’infermiera mi distoglie dal libro. “10 a 1 che è il signor Corsaro”, penso tra me e me.

“Non può uscire!”, continua a strillare l’infermiera mentre distinguo nitidamente i passi di altre due infermiere che corrono lungo il corridoio per raggiungerla.

“Signor Corsaro! Non può uscire …”.
“Eccolo…”, penso mentre giro la pagina.
“Venga con noi signor Corsaro”.
“No, non posso, devo andare”, risponde con la sua consueta signorilità.
“Non può andare, deve rimanere in camera”.
“No, devo andare! Devo andare a Ivrea, a casa”.
“Ma no, non può … magari domani”.
“No! Adesso! Oggi!”.
Il confronto comincia a essere concitato. Tre infermiere che cercano di convincerlo a restare. Il signor Corsaro che cerca insistentemente di avviarsi verso la porta in fondo al reparto. Il dialogo tra sordi continua per alcuni minuti. “Non può andare” contro “devo andare”. Stallo. Fino a quando il signor Corsaro spariglia.

“Devo prendere il treno”.

“Non ci sono treni quì”, rispondono in coro le tre infermiere.
Nuovo stallo. Che continua per pochi minuti.
Cominciano a darmi su i nervi. Appoggio il libro. Mi alzo. Raggiungo il capannello. Il signor Corsaro che svetta dalle infermiere che lo circondano. Una di loro mi guarda: “Ricky, lascia stare. Ci pensiamo noi”. Mentre un’altra annuncia: “ora lo sedo”, staccandosi dal drappello. La afferro delicatamente e la trattengo, offrendole un’espressione rassicurante.

Attiro l’attenzione del signor Corsaro. “Buonasera”, esordisco affabile.

“Buonasera”, mi risponde sorpreso. Bene.
“Dove sta andando?”, gli domando facendogli intendere che non gli sto per imporre alcun divieto.
“A Ivrea, a casa”, mi risponde liberandosi da ogni tensione.
“Come ci va a quest’ora?”
“Ma in treno”, mi risponde enfatizzando l’ovvietà della risposta o l’inutilità della domanda.
“Già! Che domanda”. Gli do lenza.
E continuo: “il biglietto?”, gli domando a bruciopelo ma senza alterare il clima rilassato.
“Il biglietto?”. Il signor Corsaro mi guarda smarrito.
“Per salire sul treno”, spiego rasserenandolo.
“Non ce l’ho”, inizialmente rassegnato ma tendente al combattivo.
“Non si preoccupi. Ci penso io”. E, con discrezione, mi faccio scrivere “Ivrea” su un post-it da una delle tre infermiere. Che mi guardano confuse, senza capire cosa sta succedendo.
“Ecco, lo tenga. Adesso può prendere il treno. A proposito, il treno per Ivrea è in ritardo. La faccio accomodare in sala d’aspetto. Venga con me”.
E lo precedo nella nostra camera. Entro in bagno. Abbasso il coperchio del water.
“Ecco fatto. Si accomodi qui. Appena il treno arriva verrò personalmente a chiamarla”. Ed esco dal bagno inseguito da un “grazie” carico di entusiasmo.

Le infermiere mi stanno guardando piuttosto perplesse.

“E se ci riprova?” mi domanda una delle tre mal celando un’aria di sfida.
“Gli chiedo del Petrarca”, rispondo senza pensare.
Sono ancora più confuse: “cioè?”.
“Ve lo racconto quando verrò dimesso”, rispondo strizzando l’occhio.

Il signor Corsaro non si alzerà dal water per quasi un paio d’ore. Ogni volta che passo davanti alla porta del bagno mi guarda e mi domanda ansioso: “il treno?”. “Porta ritardo”.
(Giugno 1995, circa)

MAI SCHERZARE CON LA MALATTIA (parte 2)

PRIMA LEGGI: MAI GIOCARE CON LA MALATTIA (parte 1)

Sabato mattina entro nel reparto di neurologia al DIMER. Mi stanno aspettando. Incominciamo immediatamente. Ago in vena. Immunoglobuline in circolo. Io sono inchiodato a letto. Mi guardo intorno. La stanza del pronto soccorso è più spoglia delle altre. È una camera singola. Poco male. Anzi meglio. Leggerò indisturbato. Incrocio la mensola della TV sul muro di fronte al letto. Vuota. Il sabato non si prenotano né la televisione né il telefono. Addio Gran Premio di Montecarlo. Da quando sono stato contagiato dalla passione per la Formula 1 non ne ho mai perso uno.

La porta della camera si apre con discrezione. Ugo!

“Cosa cazzo ci fai qui alle 11:00?”.
Risponde con un ghigno di soddisfazione e compiacimento mentre mi mostra un borsone con la cerniera aperta e coperta dal suo giubbotto di renna. Guardo cercando di capire.
“E secondo te ti lascio chiuso qui dentro due giorni senza vedere il Gran Premio di Montecarlo?”. La televisione! Ugo mi ha portato la sua televisione che, combinazione, è identica a quelle che il San Raffaele affitta. La installa sulla mensola. Collega i cavi. La accende. Funziona. Sul muro, alla destra della televisione, campeggia un cartello con su scritto:

“È severamente vietato utilizzare apparecchi televisivi privati”.
Ugo passerà tutto il fine settimana in ospedale a farmi compagnia. Naturalmente ci siamo goduti il Gran Premio di Montecarlo.
Domenica sera, verso le 19:00, ad orario di ricevimento abbondantemente scaduto, la mia attenzione, impigrita dal letto, è attratta da una persona che si aggira in via Olgettina studiando l’inferriata di cinta del DIMER. Dedo!
Lancia un sacchetto di plastica oltre l’inferriata. Si arrampica agilmente. È nel perimetro del DIMER. Un attimo ed è in camera. “Ciao vecchio”. Gelato! Dal sacchetto materializza una confezione di gelato da mezzo chilo. Fragola e limone. Per andare sul sicuro. “Non sono riuscito a venire prima perché avevo organizzato un fine settimana fuori Milano già da tempo”.

“Se lo dici un’altra volta ti becchi un vaffa …”, Il nostro modo di dirci grazie.

Non so se ci sia una relazione tra i due eventi. Mi piace pensare che Ugo e Dedo mi abbiano restituito ciò che io ho dato a Giovenale e Dalila. La certezza è che ciò che diamo torna. Da qualche parte torna.
“Tranquillo”, mi avevano detto Ugo e Dedo due sere prima. Più di una promessa. Un impegno. La rete degli amici si era stretta per non farmi cadere. C’erano. Oggi Dedo c’è ancora. C’è in un modo tanto profondo da avermi insegnato che “la fortuna va divisa con chi ne ha bisogno”. E io sono fortunato.
(Maggio 1997, circa)

STORIE DEL DIMER (EP 1)… Il signor Corsaro (parte 4)

PRIMA LEGGI: STORIE DEL DIMER (Ep. 1) … il Signor Corsaro (parte 3)

Parla. Parla. Parla. Ininterrottamente. Non si ferma mai. Di giorno. La notte. Sempre. Ininterrottamente. Ieri notte sono riuscito a chiudere gli occhi e ad addormentarmi. Non so come. Improvvisamente vengo scosso dalle spalle. Apro gli occhi e il signor Corsaro è lì, alto e dinoccolato, in piedi, piegato verso di me. Le mani appoggiate alle mie spalle. Mi sta scuotendo lui. Appena apro gli occhi si ferma. Mi guarda fisso: “perché non mi autorizza a lasciare questo ospedale”. Tra il disperato e il risentito continua a fissarmi aspettando una risposta. Valuto le opzioni. Accarezzo l’idea di picchiarlo. Trattengo l’impulso di insultarlo. Ipotizzo di dargli una ditata nell’occhio. Scelgo di essere il capo di stato maggiore. Sospirando e sibilando: “si rimetta a dormire oppure la differisco alla corte marziale per ammutinamento”. Glielo dico con il tono più minaccioso che il sonno mi consente. “Guardi che non siamo per mare”, mi risponde prontamente. L’ammutinamento. Cosa mi è venuto in mente… Devo replicare. E in fretta. Non deve prendere il sopravvento. Invece, un istante dopo lascia le mie spalle e si corica. E comincia a parlare. Parlare. Parlare.

Sta passando il pomeriggio e non ha ancora smesso di parlare. La flebo di immunoglobuline mi tiene inchiodato al letto. Parla. Non riesco a leggere. La sua voce monocorde continua a disturbarmi. Ogni tanto lo guardo mentre è lì, sdraiato nel letto, tutto solo nel suo pigiama azzurro, che parla al soffitto guardandolo come se dovesse rispondergli da un momento all’altro. Vorrei detestarlo. Invece provo una profonda tenerezza.
Parla. Parla. Si alza. Viene verso di me. E si accomoda sulla sedia ai piedi del mio letto. Composto. La schiena dritta. Le gambe accavallate. Parla. Improvvisamente si ferma. Mi fissa. “Ci risiamo”, penso. Invece mi sorprende.

“Lei lo conosce il Petrarca?”.
Lo guardo con sospetto. Mi chiedo dove sta cercando di portarmi. Dove sarà la trappola?
Azzardo: “si. Lei cosa ne pensa?”.
“Dunque, il Petrarca …”. Continua a sorprendermi. Si ferma. Tace. Si alza, l’espressione triste. Torna verso il suo letto. Si sdraia continuando a tacere. Stende le braccia lungo i fianchi. E mi sorprende ancora. Piange. Un pianto discreto, trattenuto, composto. E non parla. Continua a non parlare. Dopo un pò, forse un’ora, non si è ancora ripreso. Non piange più. Guarda il soffitto e non parla.

Dopo cena riprende a parlare. Ininterrottamente. Camminando avanti e indietro. Dalla porta alla finestra. Sto cercando di finire un libro. Parla. Parla. Ininterrottamente. Improvvisamente un lampo. Ci provo: “mi dica del Petrarca”. Mi sorride. “Dunque, il Petrarca …”. E si ferma. Tace. Si sdraia sul letto e piange. Discretamente. Smette poco dopo. Ma continuerà a tacere a lungo. Ho trovato la chiave per la mia serenità: Francesco Petrarca.
Quando non c’è la facevo più a sentirlo parlare, gli chiedevo del Petrarca. Il signor Corsaro incominciava. Si fermava. Andava verso il letto. Si coricava. Piangeva. E taceva a lungo. Io mi godevo la pace sentendomi un pò stronzo.(Giugno 1995, circa)