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Malattie misteriose Italia e la CIDP (02/06/2016)

Sono stato il testimonial della CIDP nella prima puntata di “Malattie Misteriose Italia”. Una piccola operazione di trasparenza: oggi e mentre giravamo ero su una seggiola a rotelle; il trapianto di midollo non è stato risolutivo.

Clicca sulla fotografia per vedere il documentario. La mia parte comincia a partire dal minuto 19.

Malattie misteriose

 

 

TRAPIANTO DI MIDOLLO: L’INFUSIONE DI UNA NUOVA VITA

PRIMA LEGGI: “Trapianto di midollo: il persecutore”

 

“Ma che cazzo continui a parlare!? Non è il momento, cazzo! Cosa diavolo sei venuta a fare? Non riesci a capire cosa sta per succedere?”

Avrei dovuto sbottare così. Anzi, mi sarei dovuto incazzare. Furiosamente. Invece.

Apro gli occhi e mi guardo intorno. Tutto è al proprio posto. Il letto, la poltrona, la cyclette, la televisione. La finestra con la tapparella alzata. Il sole. Il persecutore no. Non c’è.

26 dicembre 1999. Il giorno è arrivato. Oggi Fabio aprirà la porta della stanza. Entrerà con le sacche delle mie cellule staminali. Le aggancerà alla piantana alla destra del letto. Le collegherà al catetere venoso centrale. Aprirà il piccolo rubinetto. E sarà fatta. Ho aspettato così a lungo. Ho lottato così tanto per questo momento. E oggi sta per accadere.

Il tempo non passa. I secondi si dilatano fino a sembrare minuti. I minuti, ore. Cerco conforto in Alexandros. Invano. Ogni neurone, ogni cellula è proiettata verso la piantana ancora scarica. Verso i passi nel corridoio. Verso la porta della stanza per intercettare i segnali dell’arrivo di Fabio.

La mattina scorre lentamente. Il tempo è scandito dalla routine del reparto. Il prelievo di sangue. La colazione. L’igiene. Ogni volta riconosco i passi degli infermieri. Il rumore degli zoccoli di plastica contro il pavimento di formica. Passi decisi, come ogni azione del reparto.

Passi. Questi non sono familiari. Come non lo è l’aprirsi della porta. Incerto. Titubante.

“Marta! Ciao!”. La sorpresa è degna del momento.

“Ciao Ricky”, risponde Marta fermandosi ai piedi del letto.

“Come stai? – domando – la Giorgia?”

Due battute innocue per iniziare. Poi…

“La mamma è uno stress. Le ho detto che a Capodanno voglio portare la Giorgia a Euro Disney e ha cominciato a rompere. Che non devo andare. Che vista la situazione dovrei restare. Che tutto è sulle sue spalle. Che se succede qualcosa qui in ospedale… Uno stress che non puoi capire. E la mia bambina?”.

Non capisco. Mi sforzo, ma proprio non capisco. Sto per fare un trapianto di midollo, un intervento serio. Ho appena finito cinque giorni di chemioterapia pesantissima. Domani sarò senza sistema immunitario. E Marta si preoccupa di Euro Disney. Non mi aspetto che capisca cosa rappresenta questo momento per me. Ma ignorare la mamma, la sua pleurite… con questo freddo…

Argino i pensieri. E taglio corto: “penso che sei grande abbastanza per capire se in un momento come questo è opportuno che tu vada a Euro Disney…”. Se non capisce da sola, non lo capirà comunque.

La porta si apre e riconosco i passi di Fabio.

 

(26 dicembre 1999)

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TRAPIANTO DI MIDOLLO: DI NUOVO IL PERSECUTORE

prima leggi:TRAPIANTO DI MIDOLLO: LA MAMMA

prima leggi:L’INCUBO: CACCIA ALL’AGGRESSORE SENZA VOLTO (parte 2)

Fabio esce dalla stanza accompagnato da due occhi che sprigionano energia. L’energia che precede i grandi eventi e che prende le viscere. L’energia che, dopo mesi di attesa si prepara a esplodere. L’energia che farà sembrare l’ultimo passo molto lungo. Lunghissimo. Interminabile. È l’ultimo giorno. Il giorno di riposo dopo la fine della chemioterapia. Il sole è alto. Le saracinesche arrotolate. La luce invade la camera. Sono pronto. Forse troppo.

“Alexandros” di Valerio Massimo Manfredi è la mia distrazione. Una quasi-metafora dei miei ultimi due anni. Quelli della lunga preparazione per il trapianto. Quelli della visione. Della decisione. Del coraggio e della determinazione di seguirla. Dopo poche pagine Alexandros è l’unica cosa alla quale riesco a pensare. E il tempo comincia a volare. Per fortuna. A mezzanotte gli occhi rifiutano le parole. Chiudo il libro. Lo appoggio sul letto all’altezza delle gambe. Mi addormento sereno con un unico pensiero. Domani mattina rinasco. Comincerò di nuovo, ripartendo da zero. Fabio entrerà con le sacche di cellule staminali. E sarà nuova vita. Rifarò cose antiche. Già vissute. Sarà una seconda prima volta. L’emozione sarà fortissima perché ogni piccolo spazio di autonomia sarà uno spazio riconquistato. Il senso di 13 anni di lotta si svelerà in pochi istanti. Quelli dell’infusione delle staminali. Sarò all’altezza. Chiudo gli occhi e mi vedo camminare da solo, guidare la macchina. Le immagini si sfocano. Si confondono. Il sonno prende il sopravvento.

Le mani sono fortissime. Freddissime. Stringono con forza la gola. È l’alba. La luce entra dalle finestre con decisione. Sono sdraiato sul lato sinistro della schiena. La spalla destra leggermente sollevata. Capisco cosa stia succedendo.

Continuano a stringere. La potenza della morsa è inaudita. Mi manca l’aria. Socchiudo gli occhi. Vedo le braccia. Le seguo fino alle spalle, al collo. Cerco il viso. Che non c’è. Al suo posto il nulla. Il persecutore è tornato. Proprio oggi. Mentre stringe con veemenza mi rivolgo al nulla. Senza parlare.

“Non puoi. Non puoi tornare proprio oggi. Io sto per rinascere. Non mi fermerai. Il tuo tentativo non mi fermerà. Stai perdendo. Capisci? Stai perdendo. Lo capisci? Non hai speranza alcuna. Ti conosco oramai. Mi aggredisci proprio ora, proprio stamattina perché sai che funzionerà. E se anche avessi avuto un minimo dubbio annidato in qualche remoto angolo della mia mente, se anche ce l’avessi avuto, è evaporato. Hai paura. Stringi. Stringi pure… “.

Stringe con tutte le energie. Sto per cedere.

Distolgo lo sguardo dal nulla. Chiudo gli occhi. E con calma, una calma inaspettata, sentenzio: “se non mi lasci in pace, ti uccido”.

Improvvisamente la morsa alla gola svanisce. Il persecutore non è più lì.

(Dicembre 1999)

 

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TRAPIANTO DI MIDOLLO: LA MAMMA

prima leggi: TRAPIANTO DI MIDOLLO: LA CHEMIOTERAPIA

Non risponde.

Immobile. Ai piedi del letto. Mi guarda con ostinazione. Con occhi tristi. Tristissimi. Una tristezza che non conosce profondità.

“Mamma, da quanto tempo sei qui?”. La mia voce ha la forza di un sussurro.

Rimane in silenzio nella stanza immersa nella semi oscurità. Le saracinesche abbassate lasciano filtrare linee tratteggiate. Fuori il tempo è infame.

“Mamma, vai a casa. Sono troppo stanco per parlare…”.

“Ma io voglio solo guardarti. Mi basta…”.

“Mamma, pensa alla pleurite… Con questo gelo non ti fa bene uscire…”.

“Ma ti devo portare il ricambio…”.

Florenzo ha cominciato le ferie oggi.

“Manda la Marta. O Alessandro…”.

“Mamma… Vai a casa…”.

La mamma non perderà un giorno della chemioterapia. Marta e Alessandro non si sono ancora fatti vedere. Di Alessandro mi sorprenderei del contrario. Di Marta mi sorprende il fatto che non chiuda la mamma in casa.

(Dicembre 1999)

 

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TRAPIANTO DI MIDOLLO: LA CHEMIOTERAPIA

prima leggi: TRAPIANTO DI MIDOLLO: IL RICOVERO

Chemioterapia a dosaggio mega. Il suono è inquietante come lo è il nome. L’impatto non può che essere devastante.

Il primo giorno passa senza sorprese. La botta arriva il secondo giorno. Mi sveglio. Ma non completamente.

La stanza sembra più grande. No. Sembro più piccolo io. Boh. Mi sento leggero. La testa è leggera. No. È la mente ad essere leggera. Libera. Libera di fare quello che vuole. Andare dove desidera. All’esame di maturità. Devo parlare di Oscar Wilde. Alla destra del commissario di inglese, il commissario di chimica. Indossa vestiti e accessori rosa. Come faccio? Devo dire che Oscar Wilde è gay. Come faccio? Dico omosessuale? Lo chiedo a Grillo. Per fortuna che è arrivato. Trova sempre una soluzione. Mi guarda. E comincia. “Siete i soliti coglioni. Non mi date ma retta. Vi ho sempre detto che nel combattimento a terra vi dovete alzare solo quando l’arbitro vi tocca. Sennò l’avversario vi fotte”. Obietto. Cerco di obiettare. “Senna sapeva che non c’era spazio. Ha fatto apposta”.

L’infermiere mi porta il pranzo. Mi addormento.

Mi sveglio. Forse. “Pinunana batta”. Detesto il rumore del temporale. Soprattutto quando sto rientrando dalla nonna seduto nel cestino appeso al manubrio della bicicletta della zia Gege. Sono quasi arrivato. Spingo sui pedali con tutta la forza che mi rimane. Il resto l’ho lasciata lungo i 10 km di salita. I muscoli delle gambe bruciano. Sembrano sul punto di esplodere ad ogni colpo di pedale. Passo del Tonale. Ci sono quasi. “Dai cazzo papà! Non puoi mollare ora! Il passo è lì! Sono anni che vuoi raggiungere la Forcola! Abbiamo passato il nevaio…”. La maestosità della montagna mi ha invaso. Non riesco a pensare ad altro mentre la metropolitana mi riporta verso casa. Suono il campanello. La mamma apre la porta con uno sguardo triste. “Domani non vedrai correre il tuo Villeneuve”. La bocca coperta da una mascherina. Boh.

Perché la mascherina mamma? Sgrano gli occhi. Vedo i suoi incorniciati dalla calottina e dalla mascherina. Le spalle strette sotto il pastrano. È lì. Immobile ai piedi del letto. Gli occhi tristi fissi su di me.

“Mamma… da quanto sei qui?”

(Dicembre, 1999)

 

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TRAPIANTO DI MIDOLLO: IL RICOVERO

Prima leggi:LA PREPARAZIONE AL TRAPIANTO: IL CATETERE VENOSO CENTRALE

Calzo il soprascarpe sinistro. Fatto. Mamma, Florenzo, il badante filippino di turno, e io siamo pronti. Perfettamente isolati dalla calottina, dalla mascherina, dal pastrano e dai soprascarpe ci prepariamo a entrare. Di fronte a noi la porta reca un insegna di quattro vocali: U. T. M. O. (Unità di trapianto di midollo osseo).

È il 15 dicembre quando varco la soglia del reparto che ho inseguito per più di un anno. Ora che sto entrando le aspettative sono alte. Altissime. Nei mesi prima del ricovero il mio entusiasmo continua a crescere. Da più mi invitano a non passare dalle aspettative all’illusione. Il Prof., Giuseppe, gli amici, mamma. Mi limito ad ascoltare.

La porta dell’UTMO si chiude dietro di me. La confusione del reparto di ematologia rimane chiusa fuori. Dentro l’UTMO c’è tanto silenzio che si sente la vibrazione della speranza. Mi presento agli infermieri che mi registrano.

Entro nella stanza singola. È più essenziale delle solite. Il letto. Una poltrona in simil pelle bianca. Una cyclette. Agganciata sul muro di fronte al letto, nell’angolo in alto a destra, la classica televisione dell’Ospedale San Raffaele. Se tutto funziona come dovrebbe, tra un mese sarò a casa. Nei prossimi 30 giorni le quattro mura e i quattro oggetti saranno il mio universo. I testimoni di una trasformazione straordinaria. Sono l’unico a crederci.

Sottoscrivo le regole del reparto. Massimo due visite al giorno, non contemporanee. Consegnare qualsiasi oggetto agli infermieri. Saranno loro a decidere se consegnarmelo dopo averlo disinfettato. L’unica trasgressione è la scatola di Mak 5. Pastiglie ayurvediche antiossidanti per alleggerire gli effetti collaterali della chemioterapia. Nascondo la scatola in fondo al cassetto del comodino.

Florenzo ripone i libri, il ricambio, i biscotti Ringo nell’armadio. Io mi guardo in giro. La mamma non mi toglie gli occhi di dosso. Rimaniamo soli. Vorrebbe abbracciarmi. È pronta a violare il regolamento. Tossisce. Quella maledetta pleurite non la abbandona.

“Ci vediamo domani”. La voce tristissima soffocata dalla mascherina. Gli occhi più eloquenti di qualsiasi parola.

Rimango solo. Come l’attimo prima dell’inizio dei combattimenti di judo. La sensazione è così reale e familiare che per un istante mi sembra di sentire l’odore del sudore, la puzza dei judoji intrisi del sudore accumulato da settimane. L’attimo è lungo quattro giorni. Quattro giorni di esami. L’ultimo controllo prima di partire.

Il 19 dicembre, una gelida mattina saluta l’entrata in camera degli anestesisti. Installano il catetere venoso centrale. Escono. Entra un infermiere con una sacca di farmaco. È la chemioterapia. Si comincia. Ho solo certezze. Migliorerò come non sono mai migliorato. L’unica incognita: il tetto del miglioramento. Termini di paragone: nessuno. Sono la terza persona al mondo con la CIDP che si sottopone a un trapianto di midollo autologo di cellule staminali mesenchimali.

(Dicembre 1999)

 

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LA PREPARAZIONE AL TRAPIANTO: IL CATETERE VENOSO CENTRALE

“Scusi signor Taverna, devo rifarle la lastra. Non si riesce a vedere se è ben alloggiato”, mi annuncia il tecnico spingendo la macchina per i raggi X nella stanza. È la seconda volta in mezz’ora.
Inclino lo schienale del letto. Il tecnico posiziona la lastra tra la mia schiena e il materasso. Alzo la maglietta. Il tecnico indossa il grembiule protettivo di piombo. Preme un tasto sulla consolle di comando. Il tubo radiogeno si illumina e proietta una croce sul mio torace. Scatta. Ritira la lastra.
“Buongiorno”.
Finalmente. Comincia il percorso che mi porterà al trapianto di cellule staminali. Il sole splende alto e limpido. Il calore invade la stanza al quarto piano del DIMER, reparto di ematologia. Il sole, il calore. Segnali di buon auspicio. Sono teso e carico allo stesso tempo. Riconosco la sensazione. Risale, come una reminiscenza, da un passato che stava sbiadendo. L’emozione che si prendeva possesso di me nei tornei di judo. Prima del primo combattimento. Vuoto nello stomaco. Formicolio sotto la cute. L’ansia di voler combattere subito per sgombrare la mente dall’incertezza: “sarò all’altezza della sfida anche questa volta?” Quell’emozione mi rendeva più vigile. I sensi più acuti. Come allora capisco: sono pronto alla sfida. Anche se è diversa, sono pronto. La posta è alta. In palio c’è una vita migliore. Al mio fianco, spettatore interessato che assiste passivamente, la morte. Il controllo ce l’ho io. Per adesso.
Lo scopo del ricovero è la mobilizzazione delle cellule staminali.Devo produrne in quantità e qualità sufficiente per il trapianto. Mi verrà somministrata della chemio endovena attraverso un accesso venoso nella succlavia, sotto la clavicola. Una vena robusta tanto da sopportare alte dosi di chemioterapico. Succlavia che ospiterà un catetere lungo circa 20 cm.
Gli anestesisti sono stati efficienti. In un quarto d’ora hanno posizionato il catetere. Poche chiacchiere, molta azione. Perfettamente coordinati, i tre medici si sono materializzati senza che me ne accorgessi. Mentre il capo anestesista mi spiega la procedura, un collega sistema una sedia sotto il letto dalla parte dei piedi per mandare il sangue dalle gambe al tronco. Intanto il terzo medico mi depila il petto sinistro. Due punture di lidocaina per anestetizzare la zona sotto la clavicola. Una piccola pressione. È il bisturi che si apre la strada fino alla succlavia. Un movimento fluido sopra la spalla sinistra. Deve essere il catetere che entra in sede. Due punti di sutura. Rapida medicazione. E i tre anestesisti svaniscono. Sono pronto per la chemioterapia.
Il rumore di ruote schiacciate da qualcosa di pesante anticipa l’entrata dell’apparecchio portatile per i raggi X. Il tecnico scatta la lastra sul petto, un classico di ogni primo giorno di ricovero, e mi saluta trascinandosi dietro il pesante aggeggio.
“Buongiorno a lei”. Rispondo al saluto del tecnico, mentre esce dopo la seconda lastra. E mentre si allontana rumorosamente rimango sdraiato a provare i movimenti della spalla sinistra. L’effetto dell’anestetico sta passando e sta liberando il pettorale dal torpore.
Mentre ascolto il risveglio del muscolo una domanda prende possesso dei miei pensieri: “perché due lastre?”.
“Due lastre. Perché?”. In un attimo da domanda diventa una fissazione. “Perché? Cosa deve essere ben alloggiato? Ovviamente il catetere. Ma è un tubo in un altro tubo. Non ha senso”. Apro Il Signore degli Anelli in cerca di un appiglio che mi distolga. Ma la fissazione diventa quasi un’ossessione: “perché due lastre? Cazzo!”. Mi siedo sul letto. “Perché?”. Poi, un’improvvisa botta di consapevolezza. “Il catetere venoso centrale lungo una spanna circa… deve essere ben alloggiato… non è possibile…”.
“Scusa – domando all’infermiera che è appena entrata in camera – non è che il catetere venoso centrale entra nel cuore?”.
“Certamente… “, mi risponde serafica mentre continua a somministrare la terapia al mio compagno di stanza.
“Oh cazzo, mi hanno messo un tubo nel cuore”. E mentre lo penso, la stanza comincia a girare. Faccio due respiri profondi. La stanza si ferma. Tutto sotto controllo.
(Aprile, 1999)
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TRAPIANTO AUTOLOGO DI CELLULE STAMINALI EMATOPOIETICHE: IL MIO TRAPIANTO

Farmi produrre cellule staminali. Prelevarle. E reinfonderle dopo un periodo di crioconservazione in un “bidone di azoto liquido”.

In passato le cellule staminali venivano prelevate direttamente dalle ossa del bacino. Espiantate in anestesia generale. Oggi, grazie a una tecnica chiamata Leucaferesi, le cellule staminali sono raccolte dal sangue periferico. Prima della Leucaferesi il paziente viene sottoposto ad un dosaggio di chemioterapia. Al chemioterapico segue la somministrazione sotto cute di un farmaco (Lenograstim) che stimola il midollo osseo a produrre cellule staminali del sangue. Dal midollo osseo le cellule staminali passano al sangue. È il momento della Leucaferesi, il prelievo.

La leucaferesi si esegue applicando un ago nella vena di un braccio del paziente. Il sangue viene aspirato dal “separatore cellulare”, una macchina che divide le cellule staminali dalle rimanenti componenti del sangue sfruttando la forza centrifuga. Le cellule staminali vengono raccolte in una sacca sterile. La parte scartata viene reinfusa. Si raccoglie così una grande quantità di cellule staminali, sufficiente per eseguire uno o più trapianti. Rispetto alle cellule staminali prelevate con l’espianto, quelle ottenute mediante leucaferesi permettono una ricostituzione più rapida del midollo osseo.
La procedura è semplice. Lineare. Quasi banale. Nel mio caso c’è la classica variante. Dopo più di dieci anni di CIDP, di terapia endovenosa, le vene delle braccia sono diventate piccole e fragili. Somministrare il chemioterapico endovena vuol dire bruciarle definitivamente.
Imparo così dell’esistenza dell’accesso venoso centrale. Entrare nel sistema circolatorio con un catetere attraverso una vena centrale: la succlavia (sotto la clavicola), la giugulare o la femorale. “Catetere venoso centrale”. Così si chiama il “tubicino” che viene inserito. Un tubicino lungo circa 20 cm con un diametro di alcuni millimetri. Viene posizionato in anestesia locale e fissato con due punti di sutura. Il catetere venoso centrale viene utilizzato sia per l’infusione della chemioterapia e dei vari farmaci previsti dal ricovero che per i prelievi. E la Leucaferesi. Ovviamente.
Per una volta le braccia sono salve. E sono salvi gli infermieri. Il catetere venoso centrale è posizionato dagli anestesisti.
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TRAPIANTO DI MIDOLLO: IL PROF SI CONVINCE

Prima leggi: TRAPIANTO DIMIDOLLO, LA CADUTA

“Le faccio una domanda, quante probabilità ho avuto di morirci?”

Ho appena finito di raccontare a Il Prof. della caduta di ieri mattina. Momento per momento, l’ho raccontata nei particolari.
“Dieci, forse 15%”, risponde Il Prof con l’espressione di chi sta misurando il rischio nel modo più accurato possibile.
“Il punto è proprio questo professore. Io quella scala la faccio tutti i giorni, quattro volte al giorno. E non ho intenzione di smettere. Si rende quindi conto che il 2% diprobabilità di morte con il trapianto di midollo è un rischio irrisorio”.
Il volto del Prof. si oscura. Fissa un punto immaginario davanti a sé. Riflette e poi mi fissa. I suoi occhi piantati nei miei.
“Si rende conto del rischio? Il 2% è tanto”.
“Professore. Le dico come la vedo. Oramai ci conosciamo. E sa che non mi fermo di fronte a nulla. Ieri ho rischiato di ammazzarmi e sono tornato a lavorare un attimo dopo. Questo è un punto. Ma la cosa più importante è questa. Tutti dobbiamo morire, prima o poi. Io sono tra quelli che, con ogni probabilità, ci arriverà prima. Sto peggiorando drasticamente. E se continuo a peggiorare così arrivarci è una questione di quanto? Pochi anni? Bene. Detto questo, io posso fare solo una cosa. Scegliere come arrivarci. Tra pochi anni immobilizzato in un letto oppure tra pochi mesi con il trapianto di midollo, ma combattendo. Io decido di combattere la CIDP con il trapianto. Professore, proviamo… Se poi va anche bene … “.
Il Prof si ritira nei suoi pensieri. Poi si rivolge a me preoccupato. “Proviamo Taverna”.

Ho portato a casa il trapianto di midollo. Ho alzato l’asticella della sfida. Ho avvicinato la morte e la terrò al mio fianco per un po’. Questo pezzo di strada lo facciamo insieme. La destinazione ha posto per uno solo di noi due.
(Novembre 1998, circa)

TRAPIANTO DI MIDOLLO: LA CADUTA

PRIMA LEGGI: Trapianto dimidollo, razionale terapeutico e probabilità di morte

Strike sta definendo la sua nuova dimensione. In attesa di ricevere incarichi come consulenti di comunicazione, ricerchiamo sponsor. Romana si divide tra l’agenzia e l’associazione culturale che dirige. Sua cugina ci aiuta mezza giornata. La sede è nel super attico dell’appartamento di Milano 2.
La mattina mi sveglio, faccio la doccia, faccio colazione e mi arrampico verso l’ufficio. Ogni giorno compio la scalata almeno quattro volte. Mattino, pranzo, pomeriggio e sera, dopo cena. La CIDP sta vivendo un momento di gloria. Gli anticorpi stanno prendendo il sopravvento. E con il passare dei mesi le condizioni delle gambe sono peggiorate ad una velocità sconcertante. Le gambe deboli mi impongono di camminare appoggiandomi ai muri. Barcollando raggiungo la scala.
La scala è di muratura. I gradini rivestiti di boiserie, protetta da una passatoia di moquette. La prima rampa è di pochi gradini. Salendo, il muro è sulla sinistra. Il lato destro è scoperto. Mi inginocchio. E gattono fino al pianerottolo. La rampa continua a sinistra. Il muro su entrambi i lati. Continuo a gattonare. Sette gradini e affronto il tornante. I gradini diventano triangolari. Li affronto all’esterno dove sono più larghi. Il triangolo prima dell’ultima rampa è largo. Mi alzo in piedi e mi appoggio al muro dietro di me. Gli ultimi gradini mi aspettano. Appoggio le mani su i muriccioli ai lati. Devo concentrarmi al massimo. La CIDP ha reso insensibili i palmi delle mani. Non sento il muricciolo. Ogni volta che le sposto le guardo attentamente. E le posiziono meticolosamente al centro. Cinque gradini e sbarco nel super attico. La mia postazione è a destra, oltre il muretto. Affronto il momento più pericoloso. Faccio perno sulla mano destra. Ruoto verso destra e mi infilo tra tavolo e muretto. Gli occhi piantati sulla mano d’appoggio. Se scivola piombo nella scala e mi ammazzo. Così. Tutti i giorni. Sette giorni alla settimana.
“Buongiorno”.

“Buongiorno”, rispondo a Enza, la signora che tre volte alla settimana fa i mestieri in casa. Sono appena sbarcato nel super attico. Prendo i tempi per la rotazione sulla mano destra, il mio perno. La fisso per controllarla. Stacco la mano sinistra dal suo muricciolo. Nello stesso istante i miei occhi vengono catturati da un post-it sulla mia tastiera. Un messaggio della cugina di Romana. La mano destra, il mio perno, scivola indietro verso la scala. Non me ne accorgo. Perdo l’equilibrio. Poi, tutto succede in un attimo. Un lungo, tremendo attimo.

Cado nella scala. Di testa e di schiena. Ragiono. Mi irrigidisco come una tavola. Così, dopo l’inevitabile schianto, dovrei scivolare sui gradini. L’istinto del judo è ancora forte in me. Il mento si appoggia al petto. Nei combattimenti serve per non battere la testa quando si cade all’indietro. Si evita lo stordimento della botta e si è più pronti a riprendere lo scontro. Ragiono. Così scopro le vertebre cervicali e le espongo ai colpi sugli spigoli dei gradini. Meglio la testa. E allontano la testa dal mento spingendola il più indietro possibile. Appena in tempo. Lo schianto è terribile. Colpisco i gradini con violenza. Sento il rumore, non il dolore. Riesco a mantenermi rigido. Tutti i muscoli tesi. E, come avevo sperato, scivolo sui gradini. I piedi in alto e la testa in basso. Così mi fermo sul pianerottolo. Enza, che mi ha aveva seguito, sta per prendermi i piedi. Marta, che si è precipitata sentendo il rumore, sta cercando di sollevarmi la testa.

“Ferme!”. Urlo l’ordine secco.
“Ferme – continuo persuasivo – non toccatemi. Lasciatemi capire come sto”.
Ascolto il mio corpo. Osso dopo osso. Muscolo dopo muscolo. Nessun dolore. Mi muovo lentamente. Prima una gamba. Poi l’altra. Un braccio. Poi l’altro. Il busto. Le spalle. Il collo. La testa. Ancora nessun dolore. Sono stato fortunato. O bravo. O bravo e fortunato. Non importa. Spiego a Marta e alla signora come aiutarmi. Mi siedo sul pianerottolo. Sospiro. Mi appoggio ai gradini della seconda rampa. E gattono verso il super attico.

Mentre mi arrampico mi ricordo della visita di controllo con il Prof. È prevista per domani pomeriggio. Porterò a casa il trapianto di midollo.
(Novembre 1998, circa)
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