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DALL’INTERFERONE AL TRAPIANTO DI MIDOLLO

Prima leggi: L’INTERFERONE, GIOVENALE E IL NEGOZIATO CON IL PROF.

Irrompo nel corridoio del DIMER. Sono in ritardo di quasi un’ora. Colpa del traffico alla frontiera. Raffaella, l’infermiere con cui sono diventato amico, mi corre incontro.

“Il Prof. ti sta aspettando negli ambulatori. Corri. Non è per niente è abituato ad aspettare”. Il rimprovero di Raffaella è secco.
Non rispondo e mi avvio con il passo più spedito che mi posso permettere. Raffaella mi segue.

Il Prof. ci sta aspettando chino sulla scrivania. Sta studiando qualcosa. La sua capacità di capitalizzare ogni istante per la medicina è straordinaria. Ci vede arrivare. Alza la testa e accenna un sorriso stirato. Gli consegno la scatola con il farmaco. E il sorriso si apre.

“Ok”, sentenzia.
Gli ho portato interferon Avonex beta 1A. Quello giusto.
Raffaella me lo inietta subito.
“Le ho trovato un letto – mi comunica Il Prof. – La ricovero in un giorno in osservazione per gli effetti collaterali”.
Effetti collaterali che mi assalgono puntualmente dopo poche ore. Febbre oltre i 38°, brividi fortissimi, dolori alle ossa. La mattina seguente mi sveglio senza sintomi. La sera vengo dimesso. L’interferone sarà il mio nuovo compagno.

Per tutto l’anno successivo, ogni sabato sera, la mamma mi fa la puntura di interferone. Gli effetti collaterali mi colpiscono durante la notte. La domenica comincio il recupero. La sera di domenica mi sento pronto ad affrontare la settimana. E così riesco a non perdere un giorno di lavoro.
La mia situazione di salute non migliora. Anzi, con il passare dei mesi peggiora nonostante l’interferone. Le gambe diventano sempre più pesanti. Alzarmi da una seggiola diventa uno sforzo notevole. Per alzarmi dal divano mi trasferisco dal cuscino al bracciolo. L’equilibrio si fa sempre più precario. Cammino appoggiandomi ai muri. E comincio a pensare alla seggiola a rotelle.
Le visite di controllo con Il Prof. si fanno sempre più frequenti. La preoccupazione cresce. Bisogna trovare una strada alternativa. Il Prof. lancia un’idea: il trapianto di midollo.
(Novembre 1997-1998)

L’INTERFERONE, GIOVENALE E IL NEGOZIATO CON IL PROF.

Prima leggi: MIGLIORO, PEGGIORO, MIGLIORO, PEGGIORO: LA PRIMA CADUTA E L’INTERFERONE

Per l’interferone ci vorrà ancora un mese. Trenta giorni. Trenta lunghissimi giorni nei quali la CIDP avrà la libertà di attaccare il sistema nervoso periferico nelle gambe. Lei libera e indisturbata. Io, prigioniero dell’incertezza. Ho fretta. E sono preoccupato delle cadute. La sera dopo quella al Museum sono al telefono con Giovenale. Gli sto raccontando della caduta, dell’interferone, del comitato etico, dei trenta giorni di attesa. È palesemente preoccupato. Cerca di capire le prospettive. Chiede dell’interferone. Come si somministra. La frequenza delle iniezioni. Dove si compra. Domande di rito. Apparentemente.
“Ricky, ho trovato quattro fiale di interferone in una farmacia in Svizzera. Tutto legale. (Nota: In Svizzera l’interferone viene appunto venduto anche in farmacia). Sabato mattina ti passo a prendere e andiamo a ritirarlo. Ho con me i soldi (nota: una fiala di interferone costava circa L. 500.000). Non ti offendere, ma te lo regaliamo Dalila e io”. Giovenale mi lascia senza parole. In meno di un giorno ha trovato il farmaco. Senza dirmi niente. Dalla fine della storia con Daria Giovenale, Dalila e io ci siamo legati. Ma non pensavo così. Accetto tutto. Tranne il fatto che lo pagherò io.
Il Prof. è reticente. Vorrebbe che aspettassi il farmaco dal San Raffaele. Insisto. Non si sa se il farmaco sarà quello giusto, ci sono tanti interferoni. Cerca di mettermi in guardia dalla reazione al farmaco. Tutto per indurmi a desistere. Sono irremovibile.

“Professore, con tutto il rispetto, sabato sera farò la prima dose di interferone. Con lei o senza di lei”.
Una lunga pausa sembra allontanarci.
“Va bene. Sabato vada a ritirare il farmaco e venga subito al DIMER. La aspetto entro mezzogiorno”.
Ce l’ho fatta. Il Prof. e io, sempre in squadra.

(Novembre 1997, circa)

MAI GIOCARE CON LA MALATTIA (parte 1)

“Ricky, sono molto preoccupata per Giovenale!”. La voce di Dalila tradisce l’ansia e l’amore per il marito. Sono alcune settimane che ogni tanto mi chiama. Apparentemente per chiacchierare di tutto e di nulla, in realtà per sfogarsi.

Voglio bene a Giovenale e Dalila. Sono tra gli amici più veri. Ci siamo conosciuti tre anni prima quando stavo con Daria. Fin dall’inizio della nostra storia mi aveva raccontato dei suoi migliori amici, una coppia brillante e inossidabile, un esempio. Giovenale leale e spigoloso. Dalila un vulcano di allegria, intelligente. Un punto di riferimento per come “gestire” un uomo. Quando finalmente ci siamo conosciuti non potevamo che andare d’accordo. E così accadde.
Quando, pochi mesi dopo la storia con Daria finiva, come d’abitudine tagliai ponti con i suoi giri rinunciando a malincuore a Giovenale e Dalila. Fu Giovenale a cercarmi. “Ricky, comunque sia andata, fatti sentire”, mi disse nella brevissima telefonata alcuni mesi dopo Daria. Poche sere dopo ero a cena da loro. Stava nascendo una grande amicizia.
La preoccupazione e l’ansia di Dalila per Giovenale questa sera mi inquieta. “Non vuole uscire, non chiama più nessuno, in agenzia è più irascibile del solito. Anche con me parla a stento. Non so cosa fare. Ricky, cosa posso fare?”. Non ho mai tradito il richiamo d’aiuto di un amico. Giovenale doveva uscire di casa. E per convincerlo dovevo trovare un motivo che lo colpisse forte. Se era vero che avevamo nello stesso senso dell’amicizia avevo trovato il pretesto. Io. La mia malattia. “Dali, di a Giovenale che ci siamo sentiti. Che sto peggiorando e che sono depresso. Digli che dovete starmi vicino”. Mi dà piuttosto fastidio prendere in giro un amico. Prenderlo in giro sulla mia salute è detestabile. Oltre tutto da quando, un paio d’anni fa’, sono rientrato al DIMER le mani stanno migliorando costantemente. Ma sentire l’entusiasmo di Dalila all’idea che possiamo farcela mi convince che ho fatto la cosa giusta. Il lunedì dopo siamo alla Ringhiera. Dalila è raggiante. Giovenale brontola tutta la sera. Non sta bene. Devo stargli più vicino. Conoscendolo, devo stargli più vicino con discrezione.
Mercoledì mattina mi sveglio con le mani intorpidite stranamente. Inaspettatamente. Perdo nettamente funzionalità alle dita della mano destra. Giovedì mattina la perdita di funzionalità è costante. Così rapidamente non mi è mai capitato. Chiamo il DIMER. E venerdì pomeriggio sono in ambulatorio davanti a Vittorio, il primo assistente del Prof. Mi visita. Chiama il reparto. “Abbiamo un letto p.s. (pronto soccorso) libero?”. Attende la risposta. Ascolta. Mi guarda: “domani mattina sei ricoverato. Presentati in reparto alle nove che incominciamo subito con le immunoglobuline”. Non sono ancora passati i tre mesi canonici tra un ricovero e l’altro. Per la prima volta da quando sono comparsi i sintomi anni fa sono preoccupato. Più per il ricovero d’urgenza che per il torpore.
La sera, come tutte le sere, vado alla Ringhiera. Ugo e Dedo sono già arrivati. Stanno vivendo una birra al bancone. Li raggiungo e racconto tutto.

“Come ti senti?”, mi chiede Ugo guardandomi dritto negli occhi.
“Sinceramente?”. Ugo e Dedo mi rispondono con un silenzio rumorosissimo, guardandomi negli occhi come solo chi in quel momento non ha altra preoccupazione.
“Ho paura. Questo fatto del ricovero d’urgenza. Non vorrei che nascondesse qualcos’altro”.
Ugo e Dedo mi abbracciano forte. Contemporaneamente. “Tranquillo”.
“E poi c’è una cosa che mi fa incazzare. Entrando di sabato non posso affittare la televisione. Così domenica mi perdo il Gran Premio di Montecarlo”. Lo dico perché mi fa incazzare veramente e per mandare il momento in vacca. È venerdì sera. E siamo alla Ringhiera per divertirci.

La mattina dopo sono nel letto del p.s. della neurologia del DIMER. Con un ago nel braccio e le immunoglobuline che stanno entrando in circolo.

Ho giocato con la mia salute per aiutare un amico. E due giorni dopo ho incominciato a peggiorare. Mah …

(Maggio 1997, circa)