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L’EREDITÀ DELL’INFARTO: MIO FRATELLO ALE (Ep. 2)

Prima leggi: L’EREDITÀDELL’INFARTO: MIO FRATELLO ALE (Ep. 1)

“Buongiorno, sono Riccardo Taverna. Sto cercando Alessandro Taverna”. Ricky, il mio omonimo dal quale ho avuto il numero, l’ha avuto da Alessandro tre anni prima. Potrebbe non essere più suo. Per questo ho scelto la linea formale. La linea è disturbata. Dall’altra parte il silenzio. Insisto.

“Pronto?”
“Pronto?”. Una risposta. Non riconosco la voce.
“Sono Riccardo Taverna, sto cercando Alessandro Taverna”.
“Chi è che parla?”. La domanda è vagamente inquisitoria. Apparentemente sorpresa. Riconosco la voce di mio fratello.
“Ciao Ale, sono Ricky, tuo fratello”.
“Mio fratello non ha questa voce”.
“Questa è la voce di tuo fratello dopo un infarto, Ale”.
“Dimmi in che ospedale sei che vengo subito a trovarti”. Sono sorpreso. La risposta è inaspettata. Sincera e spontanea.
“Stai tranquillo Ale, l’infarto l’ho avuto sei mesi fa…”.
“… E me lo dici solo adesso…”. C’è qualcosa di diverso in questo scambio di battute. Qualcosa che tra noi non c’è mai stato. Il tono è di rimprovero. Un rimprovero delicato che nasconde un velo di preoccupazione. Forse affetto.
“Non avevo il tuo numero di telefono. L’ho recuperato solo ieri sera”.
“Ma non potevi chiederlo a David, il tuo amico inglese?”.
“Ale, David è morto poco dopo il mio infarto…”.
Alessandro metabolizza la notizia di David con una pausa. Poi continua.
“Comunque, dimmi dove sei che vengo a trovarti”.
“Ci vediamo alle sei, a casa mia, così ti presento mia moglie?”

Ale arriva alle sette. Dopo aver avvisato del ritardo. Non ho aspettative. Prenderò quello che viene. E qualsiasi cosa verrà sarà buona a prescindere. Dopo dieci anni sto per rivedere mio fratello.
(Settembre, 2012)

L’EREDITÀ DELL’INFARTO: MIO FRATELLO ALE (Ep. 1)

Prima leggi: FAMIGLIA

“Noi Taverna siamo proprio coglioni”. Ale lo dice mormorando. Forse qualcosa in più di un mormorio, giusto per farsi sentire.
“Scusa…?”, chiede Nelly che lo sta accompagnando a fare il giro del giardino.
“Dicevo che noi Taverna siamo proprio dei coglioni… Ci voleva un infarto per farci reincontrare”.
È stata una rincorsa. Lunga e incerta. Che inizia durante il ricovero in unità coronarica quando mi torna in mente che papà ha avuto il primo infarto a quarantotto anni. Diligentemente lo comunico all’equipe che mi segue. Che, altrettanto diligentemente, mi torchia di domande. “Ha un fratello di quarantacinque anni che fuma? Deve avvisarlo al più presto. Si deve sottoporre ad esami”. È il carico finale. Subito dopo le dimissioni, pieno di dubbi, mi metto in azione. Devo trovare Alessandro. Di fronte a un pericolo come la morte qualsiasi cosa deve passare inesorabilmente in secondo piano.
Ale e io non ci sentiamo da dieci anni. Dieci anni di silenzio sono il risultato di un rapporto reso impossibile da un conflitto perenne indotto, inconsapevolmente o meno, da nostro padre. Io, figlio maggiore, risposta ai desideri di papà di avere un primogenito maschio, ero il migliore per definizione. E papà non si lasciava sfuggire alcuna occasione per sottolinearlo. Soprattutto ad Ale. Astio, e forse odio, sono i sentimenti che Ale ha maturato nei miei confronti. Sentimenti che, in parte, ho contribuito ad alimentare. E che lo hanno portato ad assumere verso di me, persona con CIDP, atteggiamenti tanto discutibili quanto comprensibili. Dieci anni di lontananza possono far dimenticare una persona. Addirittura di avere un fratello. Invece ho ricordato e riflettuto. E ho capito tanti perché di Alessandro. Il suo astio, la sua sofferenza, la sua aggressività. E ho riconosciuto il suo talento e la sua onestà intellettuale.
Sono riuscito a rintracciare il suo numero di cellulare. Sono passati sei mesi dall’infarto. Il pollice sta per digitare l’ultima cifra sulla tastiera del BlackBerry. Tensione ed emozione si mescolano aumentando il tremore cronico del Parkinson. Il pollice si muove come impazzito sulla tastiera. Mi fermo e mi rilasso con un respiro profondo. Premo il tasto e aspetto. “Chissà se è ancora il suo numero?” “Chissà come reagirà?”. I miei pensieri sono interrotti da un “sì, pronto” deciso e stentoreo.
(Settembre 2012)

CRONACA DELL’INFARTO (EP.8) … I retroscena.

La mattina dell’infarto Valeria, la mia collaboratrice, aveva un raffreddore fortissimo. Il naso colava come un rubinetto aperto.

Al pronto soccorso nessuno aveva avvisato Stepan che ero stato colpito da un infarto. Aveva percepito chiaramente che c’era un problema serio. Ma ignorava che fosse il cuore.
Nelly mi stava chiamando dall’Inghilterra per augurarmi una buon giornata. Ne avevo proprio bisogno! Comunque, Stepan che tiene sempre in tasca il mio BlackBerry vedeva le telefonate. E, seguendo una logica ineccepibile, non rispondeva.

“Se rispondo e le spiego che Ricky è grave, Nelly riparte subito per Milano. E se poi tutto si risolve in una bolla di sapone ci vado di mezzo io. Se le dico che non c’è nulla di grave e poi succede una tragedia, ci vado ancora di mezzo io. Meglio aspettare”. Ineccepibile. Così Nelly si era convinta che fossi in riunione.

Dopo avere firmato il consenso all’intervento al cuore in endoscopia e avere visto la barella precipitarsi verso l’unità coronarica, Stepan aveva le informazioni corrette per chiamare Nelly. Che vede comparire il mio numero e…

“Ciao mon amour”.
“No signora, sono Stepan”.
“Ah, me lo passi?”
“Non posso, siamo in ospedale”.
“Ah, state ritirando il farmaco?” domanda a Nelly convinta che sono al San Raffaele.
“No signora”. La tensione rende le risposte di Stepan particolarmente essenziali.
“Allora dove siete?”
“Al San Paolo”.
“Allora passamelo…”.
“Non posso”.
Nelly comincia a innervosirsi. “Stepan, in che reparto siete?”
“Aspetti che chiedo ………… Unità coronarica signora”.
“Passamelo!”
“Non posso, ma sta bene”.
“Ma cosa ha avuto?!”
“Non lo so, ma sta bene”.

A questo punto Nelly è ovviamente preoccupata. Ricky ha avuto un problema al cuore. Ma quello che la spaventa è che non le dicano la verità per farla rientrare in Italia con moderata tranquillità. Chiama in ufficio per vedere se Valeria ne sa qualcosa di più.

“Bbuoondo”, risponde Valeria tirando su con il naso due volte.
Per Nelly è tutto chiaro: sta piangendo. È successo il peggio.
Valeria racconta a Nelly come sono uscito dall’ufficio. Nelly si rassicura appena appena. E incomincia a telefonare a tutti gli amici per mandarli al San Paolo.

Riesce a rintracciare anche Max, suo fratello. Che da Novara si deve precipitare a Milano.

“A proposito – Max riprende la parola prima di salutare Nelly – l’ospedale San Paolo è nell’Area C?”
“Max! Che domanda!? Cosa fai? Se è nell’Area C non vai?”
Max è meticoloso. Sempre.

(16 marzo 2012)

CRONACA DELL’INFARTO (EP. 7) … Gli amici

PRIMA LEGGI: CRONACA DELL’INFARTO (Ep. 6) … Unità coronarica e l’arrivo di Nelly

Rita. Ninfa. Sabina. Mario che è corso in ospedale. E nella sua immensa generosità ha fatto di tutto per aspettare che mi svegliassi dal sonno in cui sono piombato dopo l’arrivo di Nelly. Lo sentivo lontano, lontano, mentre parlava con Nelly. Pensavo fosse un sogno. Gianni una presenza irrinunciabile. Patrizia.
Marco Fiorentini. Da anni ci chiamiamo reciprocamente “fratello”. Non è un caso che abbia fatto di tutto per starmi vicino. Fabrizio, che c’è sempre. Febo, che ha la fobia degli ospedali. E tutte le volte che viene a trovarmi mi sorprende. Corrado.
Dedo. L’impegnatissimo Dedo. Riesce a trovare il tempo per venire a trovarmi. L’amicizia nata sul tatami. Da adolescenti. Trent’anni dopo ci siamo ancora. Dedo, tra gli amici quello più diretto. La persona che più mi ha fatto da specchio nei primi anni della malattia.
Gli SMS che Nelly ha ricevuto. Quello di Ugo. Non ci sentiamo dalla sua crisi con Romana. Risolta la crisi Ugo non ha trovato di meglio che ribaltare responsabilità su di noi. Sono passati cinque anni e l’SMS è laconico: “è vero che Ricky ha avuto un problema al cuore?”. Nelly, schiacciata dalla tensione dell’infarto, dalla consapevolezza della gravità del rischio che ho corso, trova l’energia di andare a vedere. Invece di un’altrettanto laconico “si”, risponde: “il ragazzaccio, non contento di tutti i problemi che ha già, ha voluto farci prendere un bello spavento. È riuscito a prenderlo in tempo e adesso sta bene…”. Un invito. Nessuna risposta.
Le telefonate che Nelly ha ricevuto. Bucc. “Flavio mi ha chiamato quasi alle lacrime”. Nelly mi racconta della chiamata di Bucc. Ascolto. Sono distrutto dalla stanchezza. Vorrei rimandare qualsiasi cosa. Anche questa telefonata. Ne ho tutti i diritti. Invece non ho alcuna esitazione. “Chiamalo, per favore”. Non ci sentiamo da 2 anni per orgoglio. L’orgoglio, il cuneo più subdolo che si insinua tra due amici. L’infarto mia ha restituito Flavio. Fosse solo per questo, ne è valsa la pena.
La rete degli amici si è messa in moto. Nelly e gli amici. Sono fortunato.
(16-21 marzo 2012)

CRONACA DELL’INFARTO (Ep. 6) … Unità coronarica e l’arrivo di Nelly

PRIMA LEGGI: Cronaca dell’infarto (parte 5)

“Riiiickyyyyyyyy!”. È uno squillo. Lo squillo di Rita. La nostra adorabile Rita.
Sono uscito dalla sala operatoria con il cuore ripulito. Indebolito. La coronaria rinforzata da uno stent. Gli occhi svuotati dalle lacrime. Giuseppe, l’infermiere, ha spinto la barella in ascensore. Le porte si sono aperte al 4º piano: unità coronarica. La terapia intensiva del cuore.
“Riiiickyyyyyyyy!”. Lo squillo di Rita sa di famiglia. Quotidianità. Mi riempie di vita. Troppa. Le lacrime sgorgano. Mi sistemano nel letto. Mi fasciano l’arteria femorale sinistra. Stretta. Molto stretta. C’è il rischio di emorragie con gli anti coagulanti. Mi applicano gli elettrodi per tenere il cuore sotto controllo. Punture. Pastiglie. Poi Rita. Ci abbracciamo. Un abbraccio carico di significato: Ricky non potevi andartene. Rita non potevo andarmene. Mi rassicura.

“Nelly sa tutto. È aggiornatissima e tranquilla. Sta arrivando. Atterra a Linate intorno alle 16”.
“Rita, stavo per non vedere più Nelly…”.

Poi arriva Ninfa. Passo veloce. Leggero. Sfiora il pavimento fino al mio letto. Arriva con il suo sorriso più rassicurante. Ci abbracciamo.

“Nelly sta arrivando…”.
“Stavo per non vedere più Nelly, Ninfa. Il solo pensiero di non rivederla più mi ha fatto combattere”.
Ninfa si commuove. E io la seguo a ruota.
“Dov’è Stepan?”

“Sì Ricky?”. Stepan è pronto ad eseguire.

“Grazie Stepan…”.
“Per cosa?”
“Per essere stato bravissimo”.
“Non ho fatto niente…”.
Allungo il braccio sinistro verso la testa di Stepan. E la tiro delicatamente verso la mia. Lo abbraccio forte. Stepan piegato verso il letto si lascia abbracciare, sorpreso.
“No Stepan, mi hai salvato la vita…”. Ricomincio a piangere.
“No Ricky. Ha fatto tutto lei. Io ho fatto solo quello che lei mi ha detto di fare”. Anche in un momento come questo Stepan non riesce a resistere. Deve puntualizzare.
“Stepan stai qui e non parlare. Sono vivo perché c’eri tu. Perché sei stato bravo. Non lo dimenticherò mai”.
Restiamo lì. Fermi. Abbracciati. Poi Stepan non ce la fa più.
“Non deve piangere Ricky. Il suo tempo sulla terra non ancora finito. Ha ancora tante cose da fare”.

Poi arriva Max. Il mio adorabile cognato. Una presenza inaspettata. Una sorpresa straordinaria. Max ha un cinismo leggero e affettuoso. Unico. È passata poco più di un’ora dall’uscita dalla sala operatoria. E Max è la prima persona che riesce a strapparmi una risata.
Poi arriva Sabina. Il suo “Uick”, il modo di chiamarmi che ha resistito per 25 anni nel solo clan Bucciarelli, mi fa riappropriare del senso di un’amicizia più solida del tempo. Anche a Sabina racconto come è andata. Dei sintomi. Della consapevolezza dell’infarto. Della scelta di non chiamare l’ambulanza. Della bravura di Stepan.
Sento i suoi passi nel corridoio. Il battito ritmato dei tacchi sul pavimento. Quel ritmo inconfondibile. Lo riconoscerei ovunque. Sentirlo mi emoziona. Sta arrivando. Nelly sta arrivando. Rivolgo gli occhi verso la porta della stanza. Pochi momenti e la vedo. Gli occhi provati. Il viso tirato. È bellissima. La ragione della mia vita. E da oggi non è più una metafora. Mi sorride. Il viso le si illumina nonostante la tensione.

“La prossima volta che vuoi che torni, dimmelo. Non farti venire un infarto”. E mi abbraccia. Ce l’ho fatta. La sto guardando. Con Nelly posso vincere qualsiasi sfida.

(16 marzo 2012)

Cronaca dell’infarto (parte 5)

Ho paura. Ho paura anche perché non ho il controllo di ciò che sta accadendo. Non posso intervenire in alcun modo. Non so quanto durerà l’intervento. So che sarò uno spettatore passivo. Totalmente. Il senso di impotenza amplificato dall’essere nudo. Totalmente. Non avere il controllo, per il carattere che ho, mi destabilizza. Non poter reagire mi destabilizza. E fa crescere l’ansia. Compenso portando i miei sensi al limite estremo: osservo tutto, ascolto tutto, sento tutto. È ingenuo, ne sono consapevole. Ma mi fa stare meglio. Poco, ma meglio.
“Incominciamo”. Incominciamo viene dalla mia destra. Da un camice operatorio blu, da una mascherina, da un paio di occhiali avvolgenti per proteggere gli occhi da eventuali schizzi di sangue, immagino, da una calottina mimetica. Mimetica. Come se il chirurgo protetto dalla divisa si stia accingendo a combattere. Combattere. Mi piace l’idea. Almeno c’è qualcosa di familiare in questa sala che so che non dimenticherò mai: l’idea della lotta per qualcosa. Cerco gli occhi dietro le lenti. Sono azzurri. Familiari. Marco Centola. Quel “incominciamo”, detta da Marco, diventa la parola più rassicurante dell’ultima ora.
Mi spiega tutto. Arriverà al cuore con delle sonde passando dall’arteria femorale. Darà un’occhiata in giro. Pulirà la coronaria dal colesterolo. La riparerà, e poi vediamo.
Si parte. Puntura di lidocaina all’inguine sinistro. Sento una leggera puntura. Dopo pochi secondi sento una leggera pressione. È il bisturi. È dentro. Da quell’istante assisto ad uno spettacolo per chi, come me, si occupa di gestione di crisi. L’equipe si muove con la sicurezza e l’agilità di un’orchestra collaudata. Protagonista Marco, che dirige con voce decisa anche se percepisco una leggera concitazione. Interviene controllando sul monitor, coordinando l’equipe, consultando l’equipe fuori dalla sala, spiegandomi quello che sta accadendo. Tutto contemporaneamente. Con ordine.

“Il Milan è stato sorteggiato con il Barcellona”, dice qualcuno. Forse Giuseppe.
“Verrà eliminato”, pronostico io. “Ibra nelle partite che contano non fa la differenza”.
“Ma va”, controbatte qualcun altro.

Non sono ancora passati 30 minuti. È tutto finito. Qualche punto di sutura all’inguine. L’equipe sistema la sala. Man mano escono. Marco e io rimaniamo soli. Abbassa la mascherina. Si toglie gli occhiali e la calottina mimetica. Mi riassume tutto. Dal primo istante in pronto soccorso, all’ultimo punto di sutura, passando per lo stent, la “molletta” che tiene aperta la coronaria. Sono stato in serio pericolo. Marco ha vinto la battaglia. Io sono vivo.
“Allora mi hai salvato la vita”. Le parole si formano lentamente. La gola si sta annodando. Gli occhi si stanno gonfiando. Le labbra stanno tremando. Per un lungo istante sono senza pensieri. “Ma no … ho solo …”, si schernisce tradendo un velo d’umanità. Esce dalla sala mentre la gola si sblocca, gli occhi esplodono. Piango. L’ansia e la paura si liberano. Tremo. Piango. Singhiozzo. Cerco di trattenermi ma è incontrollabile. Allora mi abbandono alle lacrime. Nelly, il primo pensiero che mi si accende nella mente. Nelly. Ho rischiato di non vederla più. Nelly. Rivedrò Nelly. Non mi trattengo più. Paura e gioia si mescolano. Sono vivo e rivedrò Nelly.

Cronaca dell’infarto (parte 4)

PRIMA LEGGI: Cronaca dell’infarto (parte 3)

La barella corre veloce lungo il corridoio del pronto soccorso accompagnata dal medico dagli occhi gelidi e un numero imprecisato di infermieri. Entra in ascensore.
“Come andiamo?”. La voce viene dal fondo della ascensore. Alzo la testa. Prospero?! Lascio cadere la testa sul cuscino. Cosa ci fa qui il mio compagno di ventura siracusano? Mi domando sorpreso. Come è possibile? Sono svenuto e sto sognando? Non avrei questo freddo. L’ansia cresce. Oppure sono… “Mi chiamo Giuseppe”, continua la voce. “Ciao” rispondo felice, rassicurato dal fatto che non sia il mio amico. Tutto come prima. Guardo il medico: “e tu come ti chiami?”.

“Lui ha un nome altoatesino…”, irrompe Giuseppe. L’ascensore ride.
“Mi chiamo Marco Centola”, risponde ridendo e fingendosi mortificato.
“Hai visto come è altoatesino?”, esclamano un paio di infermieri.
L’atmosfera è ai limiti della goliardia. E questo mi rassicura.

L’ascensore arriva al piano. Le porte si aprono e la barella accelera bruscamente. Corre veloce lungo il corridoio. Mi lascio trasportare. Sono sereno. Ho fatto quello che dovevo fare. Penso di averlo fatto al meglio. Ora nulla dipende più da me. Sono sereno, vigile e attento. Curioso a proposito di quello che sta per succedere.
A metà del corridoio, sulla sinistra, un infermiere tiene aperta una porta. L’emodinamica è pronta. Non vedo Marco. La barella entra nella sala operatoria. Non fa in tempo a fermarsi che vengo assalito da sette o otto infermieri o medici, non capisco. “Scusa se ti assaliamo – dice la voce dietro la mascherina – ma dobbiamo procedere urgentemente”. L’ansia scalza la serenità. Ma la verità è che il velo di serenità sotto il quale stavo proteggendo il mio equilibrio si dissolve lasciandomi preda di un oceano di ansia. “Fate quello che dovette senza formalizzarvi”, ribatto mentre 14 o 16 mani mi stanno togliendo tutto. Catenine, gilet, camicia, pantaloni, boxer, calze, scarpe. Sono tutti coordinati, un balletto. Il pit stop di una formula uno deve essere così. Pochi secondi. E mi trovo catapultato sul tavolo operatorio. Nudo. Corpo e anima. Sono nelle loro mani. Chissà Nelly? Ho paura.
(16 marzo 2012)

Cronaca dell’infarto (parte 3)

Ospedale San Paolo. Pronto soccorso. Sala 2. Sono circondato da medici, assistenti, infermieri.
“Saturazione? “
“Pressione?”.
“Fatto l’rx torace?”
Sento tutto il repertorio di un episodio di E.R.- Medici in Prima Linea. Quasi tutto. Mi manca di sentire: “libera!” e “lo stiamo perdendo! lo stiamo perdendo!”. Meglio cancellare questo pensiero. Sorrido. Intanto mi stanno facendo un ecocardiogramma.
“Accesso venoso?”. La voce arriva dalla mia destra. È un medico che si è appena aggiunto alla squadra. È deciso. Autorevole. Occhi azzurri. Gelidi, ma con ampi sprazzi d’umanità.
“Non provate sulle braccia, non le troverete mai”, intervengo spiegando lo stato delle mie vene. “E se le trovate… si rompono”.
Si consultano: “femorale o giugulare?”.
Stanno optando per la giugulare. “Preferisco la femorale”. La frase spicca dalla bocca incontrollata.
“Perché?”, mi domanda il medico dagli occhi di ghiaccio, quasi preso in contropiede.
“Mi dà fastidio”. Il medico alza gli occhi al cielo e si dirige verso il inguine destro.
Porca miseria. Sto discutendo. Puntualizzando. Come Stepan. Ho un infarto e sto sottilizzando sull’accesso venoso. Non mi sopporto.
Una mano carica di pastiglie si avvicina alla bocca. “Un momento! – esclamo – fermi! Vi        devo dire una cosa. Ho la CIDP da 25 anni e il Parkinson diagnosticato tre mesi fa. Sono sotto immunoglobuline sottocute e Mirapexin 52”. La mano ha un’esitazione. I medici si guardano, si scambiano un cenno di intesa. La mano mi copre la bocca. Ingurgito una quantità imprecisata di farmaci.
“Bene – annuncia il medico – corriamo in emodinamica, interveniamo”.
“Un momento, devo avvisare Nelly, mia moglie. È in Inghilterra”.
“Non abbiamo tempo – il medico è lapidario – abbiamo una coronaria ostruita al 95%. La chiamiamo dopo”.

Cronaca dell’infarto (parte 2)

Destinazione Ospedale San Paolo. Mi sento debole. Fiacco. La testa mi ciondola. Sono fradicio di sudore. Arriviamo al primo semaforo. È rosso.
“Stepan, passa con il rosso. Fai attenzione”
“Sì, Ricky”, mi risponde incerto.
“Vai tranquillo Stepan”, lo rassicuro. E mentre attraversa l’incrocio controllo anch’io. Otto semafori, tutti rossi. Ne bruciamo cinque. Ad ogni semaforo controllo l’incrocio, do istruzioni a Stepan e controllo mentre le esegue. Sto sempre peggio. La pressione nel petto aumenta. A Stepan non dico nulla. Meglio che si concentri sulla guida e non si preoccupi troppo di me. Se ne sta accorgendo. Pazienza. Ci avviciniamo all’ospedale. Stepan è sempre più determinato. All’ultimo semaforo non riesco a dargli istruzioni. Con una manovra magistrale Stepan passa con il rosso.
“Lei entra subito”. La guardia giurata del triage mi ha appena visto emergere dalla barriera umana che circonda la porta del pronto soccorso. Ha capito. Entro. Mi riceve un’infermiera che prende il controllo. Barella. Elettrocardiogramma immediato. E, mentre mi applica gli elettrodi sul petto, va in scena un dialogo grottesco.
“Come siete arrivati qui”, domanda distrattamente l’infermiera.
“In macchina”, rispondo per semplice cortesia.
“Come?”, replica l’infermiera, quasi indignata.
” in macchina, abito poco lontano”, sottolineo per troncare la conversazione.
L’infermiera si è fermata e si mette in cattedra. “In questa situazione è meglio l’accompagnamento assistito. Perché…”.
“Ok. Ha ragione”, taglio corto per mettere fine a questa conversazione surreale.
“Le spiego – interviene Stepan concitato – quando è successo eravamo in ufficio…”.
“Come? Eravate in ufficio e siete andati a casa…”. L’infermiera è sempre più indignata.
“Le spiego – continua Stepan imperterrito – la casa è a un minuto dall’ufficio…”.
Discutere. Stepan adora discutere, puntualizzare. Io non lo tollero. Tanto meno nel corso di un infarto.
“Stepan. Non discutere”, intervengo sibilando. L’elettrocardiogramma parte.
L’infermiera scruta la stampata dell’elettrocardiografo. Esploro il suo viso alla ricerca segno che mi faccia intendere la gravità dell’infarto: una smorfia, un battito di ciglia, un’ombra negli occhi. Nulla. È imperscrutabile. Lentamente dirige la barella verso la registrazione. “Lentamente – penso – forse non è così grave”.
“Nome? Cognome? Codice fiscale? Indirizzo? Numero di telefono da chiamare per un eventuale emergenza? “. Rispondo a tutto.
(16 marzo 2012)

Cronaca dell’infarto (parte 1)

Ricordo tutto. Ogni istante. Ogni pensiero. Ogni emozione.
Ricordo di essermi seduto davanti al computer in ufficio dopo aver celebrato il rito del caffè con Valeria: dieci minuti di piacevoli amenità per avviare la giornata. Stepan, il mio badante da oltre un anno, mi aiuta a scorrere la posta elettronica. Sono le 9.40. Sono pieno di energie. La giornata è dedicata alla stesura di un rapporto sulla Sostenibilità delle società quotate italiane, un documento potenzialmente straordinario.
Accade all’improvviso. Mi si appesantisce il respiro. Mi appoggio pesantemente allo schienale. Mi coglie un fastidio alla schiena. All’altezza dei bronchi. La sensazione di un palloncino che, gonfiandosi, cerca spazio vitale. Poi mi aggredisce un forte senso di nausea. Il fastidio, dalla schiena si espande al petto. “Influenza! – penso – grazie Nelly…”. Ieri sera, prima di partire per l’Inghilterra, ospite dell’ente del turismo, aveva i primi leggeri brividi.
“Stepan, accompagnami in bagno, devo vomitare”. Stepan scatta diligentemente. Mi accompagna in bagno. Mentre sono seduto sulla tazza corre a prendere un secchio. In un istante mi si aprono tutti i pori. E una cascata di sudore gelido mi si rovescia sulla pelle. “Congestione!”, penso ancora. Ma non riesco ancora a vomitare. Andrà a finire come al solito. Se non vomito entro cinque minuti, cosa che mi ristabilirà, mi farò una dormita di un paio d’ore e tornerò in ufficio. Succede sempre così. Una volta all’anno quando il mio stomaco si ribella alle porcherie che gli somministro.
“Stepan, andiamo a casa”. Stepan scatta. Sempre più diligentemente. Mi alza dalla tazza. Mi appoggia al muro. Mi tira su i pantaloni. Mi siede sulla seggiola a rotelle. Mi sento debolissimo. 90 secondi dopo siamo in salone.
Sono le 9.45. Mi sdraio sul divano in attesa dei conati. Invece, un istante dopo la nausea non c’è più. Così come è comparsa dal nulla, improvvisamente passa. Il fastidio alla schiena resiste. Resiste il fastidio al petto. I pori continuano a zampillare. “Questo è un infarto!”. Non è un pensiero. Non è un’ipotesi. Si materializza nella mia mente con la solidità granitica di una verità. Secca. Una frustata.
“No! Un infarto. Anche il cuore. È troppo! 25 anni di CIDP, tre mesi fa la diagnosi di Parkinson. Adesso il cuore. Roba da schiantare un rinoceronte in corsa. È troppo. Basta. Rimango sdraiato e mi lascio attraversare dall’infarto. Metto la parola fine a tutti i problemi: salute, il lavoro che manca, tasse e cartelle. Basta”. Rimango sul divano supino. Mi abbandono. Chiudo gli occhi. I cuscini mi abbracciano. Aspetto la fine. Sono sereno.
Mi attraversa la mente con la velocità di un lampo con la potenza rigeneratrice di un fulmine. Nelly! I suoi occhi vivaci e profondi. Il suo sorriso luminoso e contagioso. La sua allegria. Non la vedrò più. Non so come, mi ritrovo seduto sulla seggiola a rotelle. Prendo l’infarto per le corna. Da quando mi sono sdraiato sul divano sono passati pochi attimi.
“Non mi conviene chiamare un’ambulanza. Tempo che arrivi e mi trasferisca in un ospedale… faccio prima a cavarmela da solo. Vado a un pronto soccorso. È meglio che Stepan non sappia dell’infarto. È molto probabile che non regga la tensione e deve guidare. Andare al San Raffaele a quest’ora è un’impresa titanica. Faccio in tempo a morire nel traffico. Meglio andare al San Paolo. Avviserò Nelly dall’ospedale”. I pensieri scorrono con una lucidità che mi sconcerta.
“Stepan?!”
“Sì, Ricky”, mi risponde prontamente.
“Stepan, sto molto male, portami al pronto soccorso del San Paolo. In fretta”. Sto parlando con un filo di voce.
“Quello qui vicino?”
“Certo”.
Stepan scatta verso la porta.
(16 marzo 2012)