Ricordo tutto. Ogni istante. Ogni pensiero. Ogni emozione.
Ricordo di essermi seduto davanti al computer in ufficio dopo aver celebrato il rito del caffè con Valeria: dieci minuti di piacevoli amenità per avviare la giornata. Stepan, il mio badante da oltre un anno, mi aiuta a scorrere la posta elettronica. Sono le 9.40. Sono pieno di energie. La giornata è dedicata alla stesura di un rapporto sulla Sostenibilità delle società quotate italiane, un documento potenzialmente straordinario.
Accade all’improvviso. Mi si appesantisce il respiro. Mi appoggio pesantemente allo schienale. Mi coglie un fastidio alla schiena. All’altezza dei bronchi. La sensazione di un palloncino che, gonfiandosi, cerca spazio vitale. Poi mi aggredisce un forte senso di nausea. Il fastidio, dalla schiena si espande al petto. “Influenza! – penso – grazie Nelly…”. Ieri sera, prima di partire per l’Inghilterra, ospite dell’ente del turismo, aveva i primi leggeri brividi.
“Stepan, accompagnami in bagno, devo vomitare”. Stepan scatta diligentemente. Mi accompagna in bagno. Mentre sono seduto sulla tazza corre a prendere un secchio. In un istante mi si aprono tutti i pori. E una cascata di sudore gelido mi si rovescia sulla pelle. “Congestione!”, penso ancora. Ma non riesco ancora a vomitare. Andrà a finire come al solito. Se non vomito entro cinque minuti, cosa che mi ristabilirà, mi farò una dormita di un paio d’ore e tornerò in ufficio. Succede sempre così. Una volta all’anno quando il mio stomaco si ribella alle porcherie che gli somministro.
“Stepan, andiamo a casa”. Stepan scatta. Sempre più diligentemente. Mi alza dalla tazza. Mi appoggia al muro. Mi tira su i pantaloni. Mi siede sulla seggiola a rotelle. Mi sento debolissimo. 90 secondi dopo siamo in salone.
Sono le 9.45. Mi sdraio sul divano in attesa dei conati. Invece, un istante dopo la nausea non c’è più. Così come è comparsa dal nulla, improvvisamente passa. Il fastidio alla schiena resiste. Resiste il fastidio al petto. I pori continuano a zampillare. “Questo è un infarto!”. Non è un pensiero. Non è un’ipotesi. Si materializza nella mia mente con la solidità granitica di una verità. Secca. Una frustata.
“No! Un infarto. Anche il cuore. È troppo! 25 anni di CIDP, tre mesi fa la diagnosi di Parkinson. Adesso il cuore. Roba da schiantare un rinoceronte in corsa. È troppo. Basta. Rimango sdraiato e mi lascio attraversare dall’infarto. Metto la parola fine a tutti i problemi: salute, il lavoro che manca, tasse e cartelle. Basta”. Rimango sul divano supino. Mi abbandono. Chiudo gli occhi. I cuscini mi abbracciano. Aspetto la fine. Sono sereno.
Mi attraversa la mente con la velocità di un lampo con la potenza rigeneratrice di un fulmine. Nelly! I suoi occhi vivaci e profondi. Il suo sorriso luminoso e contagioso. La sua allegria. Non la vedrò più. Non so come, mi ritrovo seduto sulla seggiola a rotelle. Prendo l’infarto per le corna. Da quando mi sono sdraiato sul divano sono passati pochi attimi.
“Non mi conviene chiamare un’ambulanza. Tempo che arrivi e mi trasferisca in un ospedale… faccio prima a cavarmela da solo. Vado a un pronto soccorso. È meglio che Stepan non sappia dell’infarto. È molto probabile che non regga la tensione e deve guidare. Andare al San Raffaele a quest’ora è un’impresa titanica. Faccio in tempo a morire nel traffico. Meglio andare al San Paolo. Avviserò Nelly dall’ospedale”. I pensieri scorrono con una lucidità che mi sconcerta.
“Stepan?!”
“Sì, Ricky”, mi risponde prontamente.
“Stepan, sto molto male, portami al pronto soccorso del San Paolo. In fretta”. Sto parlando con un filo di voce.
“Quello qui vicino?”
“Certo”.
Stepan scatta verso la porta.
(16 marzo 2012)