Archivi categoria: Fidanzate

L’EREDITÀ DI DARIA

Prima leggi: IL TRAUMA PRODOTTO DA DARIA

Presentarmi dando la mano sinistra è un sintomo. La paura di essere giudicato è la malattia. Più grave della CIDP. Perdo una parte del patrimonio che ho faticosamente accumulato vivendo. La fiducia in me stesso. L’essere diretto. Affrontare i problemi con le persone guardandole negli occhi. Si riducono tutti ai minimi termini. Al livello minimo di sussistenza. Imparo a vestire una corazza. Lucente. Che riflette l’immagine dell’uomo che non sono più. Funziona con gli altri. Meno con me. Quando sono solo e rifletto sul senso delle cose che mi circondano il disagio mi depreda della serenità. Ogni giorno di più. Nascondermi non mi piace. Ma è più forte di me. Non voglio essere visto come un malato. Voglio essere una persona, con una malattia. Non vedo la strada. Non la trovo. O, forse, non ho la forza di cercarla.
Intanto continuo a vivere. Lavoro. Gli amici. Qualche compagna, ma nulla di impegnativo. È la paura di lasciarmi andare. Dovrei compiere un atto di coraggio di cui non sono all’altezza. Così non vivo pienamente ciò che la vita mi dà. Monica mi insegue con caparbietà. Cedo. Mi incalza con delicatezza. Ci divertiamo, ma mi guardo dal perdere l’equilibrio. Simona e Rita non passano la soglia dell’amicizia. Eppure, forse. Tatiana crepa la corazza. Subisco una regressione adolescenziale che riesco a mascherare. Quando la storia finisce non ho dubbi: è colpa della malattia.
Il disagio raggiunge il culmine. E non trovo la via d’uscita. Comincio a pensare alla psicanalisi. Ma anche questa è una questione di coraggio. Fiore mi da la chiave per scardinare ogni resistenza: “la psicanalisi ti dà degli strumenti perché tu possa continuare a capirti quando non ce la fai più da solo”. Dalila mi fa conoscere la Zav. Comincio un viaggio straordinario. È una sera d’autunno. La stagione più cupa. Quella adatta per i primi scavi nel mio subconscio. Sto per scoprire tanto. Soprattutto il mio lato oscuro.
(1994-1996)

IL TRAUMA PRODOTTO DA DARIA

Un colpo di una violenza inaudita. Arriva all’improvviso, come una coltellata nel buio diretta allo stomaco. Impossibile prevederla, impossibile schivarla. Una pugnalata che taglia il fiato. Che stordisce.
“Ti lascio”. Daria è stranamente indecisa. Non è da lei.
Indago meticoloso come un inquisitore mentre maschero grossolanamente la preoccupazione.

Siamo insieme da quasi un anno. La storia è nata quasi per caso un sabato di novembre. Quella sera esco malvolentieri. Alle 10 sono pronto. Destinazione casa di Sauro dall’altra parte di Milano. Piove. Mi siedo sul divano sperando che la pigrizia si impossessi totalmente di me. Invece a mezzanotte mi trascino verso la porta. Esco. Senza sapere perché.
L’appartamento in fondo a Via Delle Forze Armate è piccolo e affollato. Le luci sono soffuse. Dall’altra parte del soggiorno una coppia di faretti illumina l’angolo cottura. E Daria. Bionda. Occhi azzurri. Sicura di sé. Allegra e sorridente. Però sta parlando con Alessandro, mio fratello. Come ha fatto a finire quì? Nulla. Meglio abbandonare qualsiasi velleità. Non ci parliamo da un paio d’anni, meglio non peggiorare il rapporto. Saluto tutti.
Antonio e io ci facciamo prendere da una discussione appassionata e ci sediamo in veranda per parlare più tranquillamente finché si allontana per rifornire il bicchiere. Mentre aspetto mi giro verso la finestra per non essere disturbato. Voglio portare a termine la conversazione. “Ho l’impressione che tu sia l’unico che non conosco”. Mi volto e mi trovo di fronte a Daria. Chiacchieriamo fino al termine della serata. Se Alessandro se la prende, pazienza.
La storia con Daria comincia in semi-clandestinità. Daria sta portando a termine la separazione dal primo marito. Venti giorni dopo la sera a casa di Sauro siamo inseparabili. Passano poche settimane e siamo in tre: io, Daria e la sua gelosia. Stiamo insieme dieci mesi tra alti e bassi ritmati dalle scenate di gelosia che diventano sempre più ossessive a acute. In questi mesi conosco Giovenale e Dalila, i suoi migliori amici.
Le cene con Giovenale e Dalila, i fine settimana a Sanremo e le scenate di gelosia scandiscono il tempo fino al lunedì sera di settembre in cui Daria e io siamo seduti in macchina e stiamo tirando le fila della nostra storia. Il suo “ti lascio” è indeciso. Indago. Il bisogno di comprendere la verità mi fa incalzare Daria, mettere un cuneo in ogni contraddizione. Mentre nascondo a stento una strana sensazione di disagio.
“Ricky – Daria rompe una lunga pausa – il fatto è che ho paura della tua malattia. Non riesco ad affrontarla. Poi stai peggiorando…”.

È strano, non sono sorpreso più di tanto. Nell’ultimo mese e mezzo sono effettivamente peggiorato. Piccole cose ma sensibili. Non riesco più a firmare, a tirare su le calze. Da Daria ho percepito un fastidio leggero. Impercettibile ma persistente. Lo riconosco adesso dopo averlo rifiutato nel momento in cui il suo sopracciglio si piegava. Ho la coscienza per rispettare la consapevolezza di Daria di non avere la forza per affrontare una storia difficile. Mi fa male. Ma rispetto la sua onestà. Non ci sono cunei da mettere. Rispondo con un “capisco”. E una lunga pausa. Rotta ancora da Daria.

“Ti amo Ricky – la voce è tornata decisa, mi sta abbracciando – non ti nascondo la paura per la tua salute. Restiamo insieme. Se migliori saremo felici. Se peggiori ci lasciamo”.

È un pugnalata. Il fiato si blocca. Lo stomaco si contorce. Il cervello ragiona a intermittenza. Un unico pensiero mi pulsa in testa: “come dipendesse da me”. Quanti cunei potrei mettere, ma non ha senso. Non ha più alcun senso. Per lei sono diventato un prodotto: soddisfatta o rimborsata.
“Non so se mai ti renderai conto di quello che hai detto. Io non ti voglio più”. E la invito a scendere dall’auto.

Torno a casa guidando a trenta all’ora. Sconvolto da quello che ho sentito. Sconvolto da chi me lo ha detto. Sconvolto dal non essere riconosciuto come persona. Solo dopo mi accorgerò del trauma prodotto da Daria. Per mesi avrò paura di quello che la gente pensa della mia malattia. Per mesi nasconderò la mano destra, quella più compromessa. Per alcuni anni non riuscirò ad aprirmi ai sentimenti.
(1993)

L’INIZIO (EP. 8) … Uick (Io) non si deve stancare e il sesso

PRIMA LEGGI: L’INIZIO (EP.7) … Ricky non si deve stancare

“Dottor Greblo, come faccio a capire come sta Riccardo, se peggiora?”. Per una madre, un figlio ammalato è una sfida in cui getta tutta se stessa. L’istinto di protezione, la voglia del suo bene la spingono oltre tutti i limiti di sopportazione fisica e psicologica. Deve farlo guarire. E ci riesce spesso. La malattia degenerativa è devastante. Per il figlio che la subisce. Per la madre che vede il figlio spegnersi lentamente. Il vigore della madre si infrange quotidianamente contro l’ineluttabilità della degenerazione. L’istinto di protezione, sistematicamente castrato dall’incapacità di far cambiare la rotta, cerca nuovi varchi. Trova nuovi modi di esprimersi.
Nonostante io non voglia, la mamma si muove dietro le quinte. Chiede, indaga, cerca di capire. Si batte nell’ombra. E nell’ombra sfoga la sua frustrazione. Le amiche che accolgono la sua tristezza. Con me invece non cambia. Almeno nei primi anni. Sorride. S’arrabbia. Come al solito. Della malattia con me parla il minimo indispensabile. Il suo modo di proteggermi. Il suo modo di lottare. Tenermi tranquillo.
“Come faccio a capire come sta Riccardo, se peggiora?”.

Pagina è in alto “Guardi come muovere le mani, se si stanca prima, se dorme meno”. Il Dottor Greblo, il nostro medico della mutua, da alla mamma una serie di indicazioni puntuali.
“Grazie dottore”, conclude la mamma.
“Si figuri. Buona sera …. Aspetti! L’ultima volta che Riccardo è venuto a farsi visitare mi sono dimenticato di chiedere una cosa. Lo faccia lei per me, per favore”.
“Mi dica”.
“Gli chiede se le sue prestazioni sessuali sono peggiorate?”.
“Certamente”.

Certamente!? La mamma è estroversa, chiacchierona, parla di tante cose. Ma parlare di sesso no. Non ci riesce. A parole è una madre moderna. E per alcuni aspetti lo è. Ma il sesso fa emergere il suo lato borghese. Non me lo chiederà mai. A costo di non saperlo. Però la pulce è entrata nell’orecchio. E ogni giorno si insinua sempre più in profondità.

Da due anni sono fidanzato con Diane. Francese per metà. Estroversa, brillante, arguta, a volte irriverente. Impossibile da mettere in imbarazzo. Diane e la mamma non potevano che andare d’accordo. Vanno tanto d’accordo che, alle volte, quando Diane mi telefona a casa e risponde la mamma possono passare minuti a chiacchierare prima che me la passi.
“Buongiorno signora, sono Diane, c’è il Uick”. La simpatia di Diane è accentuata da una “erre” così francese da uscire come “u”. In quegli anni sono stato Uick per quasi tutti. Oggi, a distanza di oltre vent’anni, lo sono ancora per lo straordinario clan Bucciarelli.

“Sì c’è, Diane. Come stai?”
“Bene grazie. Lei?”
“Io sto bene Diane, come va l’università?”
“Insomma signora, sto faticando con diritto penale”.
“So che è duro. Anche il figlio di …”. E la mamma racconta l’aneddoto del figlio di un’amica con la sua solita maestria. Diane domanda. Ride. Scherza.
“Comunque signora, io mi impegno al massimo”.
“Lo so Diane, hai un gran carattere. Sono proprio contenta anche per il Rick”.
“Anch’io sono fortunata”. Diane risponde sempre a un complimento con un complimento.
“Ormai sono due anni …”
“Sì …”
“Siete proprio una bella coppia, e non lo dico da mamma”.
“Si, … e poi il Rick è sempre gentile”.
Diane incomincia a cercare di capire dove stia puntando la mamma. La mamma sta prendendo la rincorsa.
“Sai Diane, sono un po’ preoccupata per la sua malattia”.
“Anch’io un po’. Ma stia tranquilla sono molto innamorata e gli sto vicina”. Diane rassicura la mamma, pensando di aver capito.
“Lo so Diane, sei proprio una brava ragazza. … A proposito … quando … siete soli … fate …”. La mamma fa una pausa sperando che Diane capisca.
Diane afferra il passaggio: “certo signora. D’altra parte abbiamo 25 anni …”.
“Certo, certo …”, interloquisce la mamma mettendosi sulla difensiva. E le pause si allungano.
“E … e … – cerca di continuare la mamma – tu … tu … come … come ti trovi?”. La mamma riesce a concludere tutto d’un fiato.
“Ah, benissimo”. Risponde Diane per nulla intimorita.
La mamma prende coraggio.
“Non è che il Rick … con la malattia …”. La mamma si lancia.
“Oh signora, guardi, non potrei essere più soddisfatta”, risponde Diane di botto.
La mamma vede il traguardo. E si carica.
“Ecco Diane, non farlo stancare”. Missione compiuta. Ha scoperto delle mie prestazioni sessuali e si è liberata del fardello della protezione del figlio. Ora è tranquilla. Rilassata. Ma non conosce Diane fino in fondo che risponde con la velocità del fulmine.
“Non si preoccupi signora, se si stanca vado sopra io”, rassicura con assoluta decisione.
La risposta è inaspettata quanto destabilizzante.
“Vai sopra tu … ?”. La domanda della mamma è istintiva. Domanda scandendo le parole lentamente. Contemporaneamente cercando la risposta.
“Sii signora, sto sopra io”, spiega Diana tranquillamente.
“Ah già … si, si”, risponde la mamma cercando di darsi un tono e mal celando l’imbarazzo.
La mamma rompe il silenzio di una lunga pausa.
“Diane”
“Si”.
“Giurami che non dirai mai al Rick di questa telefonata”.

Ho saputo di questa conversazione da Diane. Non stavamo più insieme da alcuni anni. Non ho mai detto nulla alla mamma.
(1990 circa)

PRENDI UNA FIDANZATA, TRATTALA…

(In quel periodo la CIDP stava facendo il suo corso. Ero in una delle fasi di miglioramento. Gli effetti erano poco visibili. L’impatto più significativo era nelle mani. Non facevo più i movimenti fini come allacciare un bottone o tirare su la cerniera lampo. Non riuscivo più a portare pesi).
Arrivo puntuale sotto casa di Daria. Mi sta già aspettando. La valigia e le borse allineate sul marciapiede. Stiamo partendo per la Grecia.
Scendo dalla macchina. Apro il bagagliaio. Daria lo svuota. Incominciamo a caricare le valigie e le borse con ordine. O meglio, Daria carica. Io do le istruzioni. Daria circa 1 e 70, esile. Io 1 e 87, robusto. Il fisico da palestra ancora evidente.
“Prendi quella e mettila lì”. “Ok, bene. Ora quella sacca in quell’angolo”. “Sposta quella borsa sopra la sacca… perfetto”.
Daria esegue diligentemente. Stiamo insieme da nove mesi e ha accettato i miei limiti dal primo giorno. Anche perché sono stato chiaro e trasparente. Le ho detto tutto della mia malattia e dei limiti che mi impone, fin da subito. Con grande onestà.
Abbiamo quasi finito di caricare la macchina. Un coppia passa sul marciapiede dietro di noi. Lui si rivolge a lei.  “Hai visto?  – le chiede con un vago tono di ammirazione  –  quello lì ha capito tutto della vita!”
(Luglio 1993, circa)