Archivio dell'autore: Riccardo Taverna

E mentre miglioro…

E mentre miglioro non posso che pensare alla mamma. Alla persona che ha sofferto più di tutti della mia disabilità. Più di quanto ne abbia sofferto io. Mi viene in mente all’ospedale quando veniva a trovarmi in camera sterile nonostante fossi letteralmente stordito dalla chemioterapia a megadosi che mi serviva per prepararmi dal trapianto di midollo. Veniva in ospedale e le bastava stare lì a guardarmi.

Ho scoperto poi che aveva paura che morissi. E invece no. Sono ancora qui grazie anche alla mamma. Grazie a quello che mi ha insegnato della vita. Dall’umiltà per non credermi onnipotente, alla forza, l’esempio che mi ha sempre dato. La forza di sopportare, la forza e il coraggio di reagire.

Quello che ha sopportato per me, quello che ha fatto per me è incalcolabile. E mi piace l’idea che mi stia guardando con i suoi grandi occhi commossa perché sto migliorando “Non so se mi senti, mamma, né so se quello che mi sta accadendo è merito tuo. Ma questo è per te!”

Leonardo e Carlo: i giganti (parte 2-fine)

Leggi anche: “Leonardo e Carlo: i giganti (parte 1)

Distolgo lo sguardo. Ma solo per un attimo. È troppo familiare. Lo riguardo. Mi sorride. “Cazzo, è proprio uguale a Carlo”. “Oh cazzo… È Carlo!”. Allungo il collo per avvicinare gli occhi. Anche pochi centimetri possono fare la differenza. Formulo le parole “sei tu” con il solo labiale. Mi sorride. È lui. Mentre Leonardo continua il suo monologo penso a Carlo e alla sorpresa che mi sta facendo. Al senso del fatto che sia qui stasera, a 150 km da Reggio Emilia. Non ha senso. È alla terza presentazione del mio libro. Ogni tanto ci lanciamo un’occhiata.

Da quanti anni conosco Carlo? 40. Una vita. Faccio un respiro profondo per riprendermi dalla consapevolezza del tempo che è passato. Da quanto tempo? E la mente corre alla prima pagina del mio libro: “La salsedine che riempie il respiro, il sale che secca la pelle, la sabbia che brucia sotto i piedi… Se chiudo gli occhi e guardo indietro, alla prima immagine ed emozione che ricordo, vede il mare, il movimento incessante delle onde, il ritmo con il quale si infrangevano una dopo l’altra, una nell’altra. L’orizzonte limpido e infinito del Mediterraneo, le sfumature di azzurro che riempivano ogni respiro. Alle mie spalle la spiaggia e, poco più indietro, Bengasi, la seconda città e porto principale della Libia.

Al mio fianco Sami, il mio migliore amico, e poi Alessandro, Anwar, Carlo, Massimo e Ricky. (…). Passavamo ore a correre e saltare tra le onde (…).

Sono i miei primi amici. Carlo c’era già. Ma poi? Poi, c’è sempre stato. Non te lo dava a vedere. Era discreto, Carlo è sempre stato discreto. Ma se c’era una persona sulla quale potevi contare, quella era Carlo. Difficilmente Carlo diceva di “no”. Almeno, le volte che l’ho sentito io sono talmente rare che mi sono chiesto se sapesse pronunciare quella parolina. Carlo è quello che ti aiuta senza che tu glielo chieda. Carlo è quello che ti sorprende. Come mi ha sorpreso quando mi ha chiamato per dirmi che stava organizzando una presentazione del mio libro a Reggio Emilia. La sorpresa più grossa è stata la sua introduzione. Di me ha detto cose che non avrei mai immaginato. Ma la cosa ancora più sorprendente è stata l’emozione con cui leggeva. Mentre lo ascoltavo, mentre lo guardavo pensavo a quanto gli voglio bene e quanto, alle volte, mi è capitato di darlo per scontato. Invece Carlo è un altro gigante. Non te lo dà a vedere. Devi scoprirlo lentamente e te lo devi meritare.

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Quando Franco, suo papà, ci ha lasciati, dopo che Carlo l’aveva accudito per un numero incalcolabile di fine settimana, sono andato al funerale con Flavio, un nostro amico dai tempi della Libia. Tornando ripensavamo alla famiglia Coda, agli episodi di vita vissuta con Carlo, Massimo, Marina, Franco e Paola. Flavio interrompe uno dei lunghi silenzi che ci accompagnavano sulla strada del ritorno:

“Carlo è la persona più buona che io conosca”.

“È vero Fla”.

Abbiamo terminato lo spettacolo e mi sono precipitato da Carlo. Ci siamo abbracciati. Poco lontano da noi Stepan mi aspettava. Gli avevo giurato che finita la rappresentazione saremmo tornati a casa. Non avevo intenzione di rompere la promessa.

“Carlo, porca miseria, se tu mi avessi avvisato mi sarei organizzato. Purtroppo devo andare a casa subito”.

“Non è importante Ricky, mi bastava sentirti parlare”.

Questo è Carlo.

Leonardo e Carlo, i giganti.(Prima parte)

Diversità, sofferenza, depressione, resurrezione, felicità. Il monologo di Leonardo lascia il segno, come sempre. Il teatro è quasi vuoto. Ci saranno 30 persone, ma sono persone motivate. Sono presenti perché vogliono sentire qualcuno parlare di difficoltà e sofferenza, e soprattutto da chi le ha superate. L’attenzione è così forte che si può quasi toccare il silenzio. Il carisma di Leonardo fa presa come il cemento rapido che si asciuga sotto il sole. Forte.Ogni volta che sento raccontare la sua storia mi sorprende che un uomo sia passato attraverso tutta quella sofferenza quasi indenne. E oggi lo racconta con una straordinaria autoironia, la cifra della sua resurrezione. Tutte le volte che lo ascolto scopro una nuova sfumatura, un nuovo angolo che cominciano sorprendermi sempre meno man mano che lo conosco. E la mia stima cresce.

Io sono in mezzo al palco comodamente seduto sulla mia seggiola a rotelle. Ho finito la prima parte del mio intervento sulla disabilità. Tocca a Leonardo, il mio “fratellone”, che mi vuole sempre vicino. Dice che ha bisogno di interagire con me. Ma probabilmente vuole la mia compagnia o forse la mia rassicurazione. Non importa. Il mio fratellone mi vuole lì, al centro, e io sarò lì dove lui mi vuole. Lo chiamo “fratellone” nonostante l’altezza. Anzi, a dispetto dell’altezza, per rompere gli schemi così come ho intitolato “Tutte le fortune” il mio libro.

Ci siamo conosciuti alla seconda presentazione del libro in questo caso fortissimamente voluta da Ida La Camera del circolo “vivi con stile” di Legambiente. Stavamo provando il microfono alla “Stecca degli artigiani”. Il microfono funzionava. L’asta che doveva tenerlo poco lontano dalla mia bocca, invece, non voleva saperne di stare in posizione. Aspettava pochi secondi e poi si piegava come un girasole nella notte. Ogni volta che provavano.

La presentazione alla “Stecca degli artigiani”

Leonardo era saltato giù da una sedia in seconda fila, aveva raggiunto il gruppetto di tecnici o sedicenti tali, aveva staccato il microfono dall’asta e con la sua dolcezza che non ammette repliche disse che lo avrebbe tenuto lui. Mi sono preoccupato. Leonardo è affetto da acondroplasia. È un nano, tanto per intenderci. L’avevo guardato con sorpresa e mi ero preoccupato. Non volevo approfittare. “Tranquillo” mi disse guardandomi dal basso in alto con la sua voce profonda e calda. Il microfono è stato tutta la sera in posizione. Leonardo non si era mosso di un soffio. Ha tenuto il microfono senza lamentarsi. Poche settimane dopo debuttavamo con il nostro spettacolo sulla disabilità. Così ho scoperto cos’è Leonardo. È un uomo come ce ne sono pochi. Quando lo vedi arrivare lo noti perché è piccolo piccolo. Poi lo conosci, e Leonardo si conosce in fretta, e ti rendi conto di essere al cospetto di un gigante. Perché tutta quella umanità, quella generosità, quella dolcezza non possono che albergare in un gigante.

Quando Leonardo parla non sta fermo un istante: attraversa il palco, torna indietro, sparisce dietro una quinta, ricompare dall’altra, mi raggiunge e mi mette una mano sulla spalla. Riparte. Ritorna. Io rischio il mal di testa ma non lo perdo d’occhio. Lo seguo incessantemente.

Lo sto seguendo da alcuni minuti. Gli occhi lo seguono quando improvvisamente mi suggono verso sinistra. In prima fila. Le luci del palco che assolvono anche il compito di non rendere visibile il pubblico non mi danno una mano. Sono attratto da una figura familiare. “Toh”, penso dopo un po’ che lo osservo. “Guarda un po’ quanto quello assomiglia a Carlo”.

Diventare uomo (Presentare “Tutte le fortune” all’ombra del Torrazzo)

“Quale sarà il menù, Ricky?”

Che strana domanda, Stepan non mi ha mai chiesto cosa avremmo mangiato a un ricevimento, a un convegno o semplicemente a una cena con un cliente o con un interlocutore.

“Non lo so proprio Stepan”

“Ma non ha neanche un’idea?”, insiste delicatamente Stepan.

“Sarà qualcosa di istituzionale, Stepan. Un classico primo, magari una scelta tra due o tre opzioni, un classico secondo, roast beef o vitello tonnato”. Le scelte dei menu dai catering sono sempre le stesse. Difficile che sorprendano. Ma in fondo il menu lo sceglie sempre il cliente. Non si capirà mai a chi dei due manca la fantasia.

Questa sera il cliente è il Lions Club Stradivari che con il Lions Club Duomo ha organizzato una cena in mio onore per presentare “Tutte le fortune”. In realtà è stato Luigi a volere la serata. L’ha voluta fortemente. Da quando ha letto la mia autobiografia non dice altro che è il più bel libro che abbia letto. Ma Luigi mi vuole bene, e l’affetto fa parlare il cuore più della ragione. Ci vedremo dopo non so quanti anni. L’ultima volta sarà stata senz’altro a Marilleva dove andavo in montagna. Rivedrò Roberto, che era presente alla presentazione ufficiale del libro, rivedrò Michele. Rivedrò tanti amici di Cremona che erano i miei compagni della montagna.

Chissà perché Stepan mi ha chiesto della cena? Infondo che cosa mi deve importare. Spesso i pensieri di Stepan prendono delle derive che solo lui conosce.

“E se servissero coniglio?”

“Non penso proprio”. Rispondo immediatamente a Stepan e riconosco una punta di risentimento nelle mie parole. Il coniglio.

“La carne di coniglio è cacciagione, ha un sapore particolare che può non piacere a tutti,” spiego a Stepan. Ma in realtà sto palesemente cercando di convincere me stesso.

“Ma come ti è venuto in mente il coniglio Stepan?”

“Niente… Così…”

Il coniglio mi è entrato dentro come un tarlo che scava velocemente. Già, il coniglio. La mia mente torna indietro di quarant’anni, alla Libia. A quella mattina che papà era arrivato a casa con tre coniglietti. Uno per ogni figlio. Con Papà avevamo costruito la conigliera alcuni giorni prima. Dove i conigli cominciarono a passare tutte le notti. Tutte le notti, perché il giorno erano sempre con noi a giocare. Un coniglio per ogni figlio. La garanzia contro i litigi.

I conigli erano cresciuti. Erano diventati adulti. Quando uscivamo in giardino la mattina ci raggiungevano e cominciavamo a giocare. Ma quella mattina papà ci stava aspettando alla conigliera. Aveva in mano un coltello. Aveva legato i conigli al legno. E noi dovevamo ucciderli, perché dovevamo diventare “uomini”. Ho rimosso il ricordo di come sono morti. Non so se ho ucciso il mio coniglio o l’aveva fatto papà. Ricordo il pianto e le urla di disperazione. Ricordo le urla di papà che sovrastavano le nostre “devi diventare un uomo!”. Di sicuro mi ricordo che avevo mangiato il mio coniglio a pranzo tra le lacrime. Un’altra prova voluta da papà per fare diventare un bambino di cinque anni un uomo in una sola mattina. Mamma piangeva. Cercava di proteggerci. Di fare smettere papà. Ma papà era ossessionato da qualcosa che forse neanche lui capiva in quel momento. Io non volevo diventare un uomo. Volevo essere un bambino e giocare con il mio coniglio.

Non sono più riuscito a mangiare carne di coniglio. A malapena riesco a mangiare la cacciagione. Se in uno stufato c’è l’ombra di carne di coniglio i conati prendono possesso del mio stomaco appena la forchetta si avvicina alla bocca. “Ma no, figuriamoci se stasera c’è coniglio”. Penso.

Arrivati a Cremona entro nell’albergo all’ombra del Torrazzo spinto da Stepan che governa la carrozzina con la solita maestria. Abbraccio Luigi.

“Ti ricordi di me?” mi chiede Michele.

“Come potrei non ricordarmi di te”. E ci abbracciamo.

Poi la sorpresa. Carlo è venuto da Reggio Emilia ad ascoltare la ennesima presentazione del libro. Carlo, anche Carlo, adora il mio libro. Sono avvolto dall’euforia di rivedere i miei vecchi amici, di rivedere Carlo. Intanto mi presentano i presidenti dei due Club che si sono uniti per questa serata. Ci dirigiamo verso tavola. Io prendo possesso della posizione dell’ospite d’onore. Alla mia sinistra i due presidenti in carica. Alla mia destra Stepan. Di fronte a me, Luigi, il promotore di questa serata.

La conversazione con i due presidenti è frizzante e piacevole.

All’improvviso capto la voce di Stepan che si rivolge al cameriere con estrema discrezione: “cosa c’è di secondo? “

“Coniglio”, risponde con altrettanta discrezione il cameriere.

Nell’istante successivo il mio stomaco mi lancia un segnale minaccioso, Stepan salta in piedi e chiede al cameriere di accompagnarlo in cucina. Torna con il suo sorriso compiaciuto. Si siede. Si avvicina al mio orecchio e mi sussurra: “stia tranquillo Ricky, di secondo per lei c’è dello speck”.

I pensieri di Stepan seguono sempre dei percorsi che solo lui conosce.

La dedica

“Ok Ricky, sono pronto. Dove scrivo?”

Flavio si assesta sulla sedia. Controlla la penna. Funziona. Non gli resta che scrivere la dedica che gli sto per dettare.

Siamo ancora rimbambiti dal sabato prenatalizio. Milano è uggiosa. Caotica. Una giornata da restare “tappati in casa”.

Invece siamo nella hall dell’albergo in piazza Lodi. I Bengasini, i bambini italiani che negli anni 70 erano a Bengasi in Libia pernottano lì. Stasera sono tutti a cena a casa nostra. Tutto è nato alcuni mesi prima da una straordinaria idea di Carlo e di Tamara Budec. Hanno creato un gruppo su Facebook, “Bengasi anni ‘70: io c’ero”. Hanno invitato tutti i Bengasini che conoscevano e che erano usciti a rintracciare. Abbiamo cominciato a scriverci scavando nella memoria. E a settembre eravamo tutti a Milano a incontrarci per la prima volta. Quarant’anni dopo.

… Mentre detto la dedica a Flavio…
… Mentre detto la dedica a Flavio…

“Sulla quinta pagina – indico a Flavio la posizione mentre gira le pagine – si, proprio lì”

“Cosa scrivo?”

“Aspetta che faccio mente locale”. Chiudo gli occhi per concentrarmi il minimo necessario.… Penso a Tamara. Alla bambina che mi piaceva in Libia. Alla donna coraggiosa che avevo incontrato alcuni anni fa su Facebook. Alla sua passione per “badavo in badanti.org” e all’idea che diventasse un libro. A settembre aveva dimenticato la sua copia di “Tutte le fortune” ed era ripartita senza alcuna dedica. Delusa.

“Ok Fla, ci sono. Scrivi la data”

Flavio si china leggermente sul libro aperto e comincia a scrivere.

Intanto rifinisco mentalmente la dedica. Ma…

“Fla, cosa hai scritto?”

“La data”

“… E perché?”

“Perché me l’hai detto tu”

“Sí ma io intendevo la data”

“E io l’ho scritto, Ricky”

“Fla, la data… 3 dicembre 2016”

“Oh cazzo”, Flavio mi guarda con due occhi sbarrati. Si dà prontamente un tono.

“Io pensavo che tu volessi scrivere…”. Non regge. Si rende conto che qualsiasi tentativo di spiegazione è più grottesco del fatto di avere scritto la data, e continua a fissarmi in silenzio. La nostra resistenza è patetica. All’improvviso la quiete della hall è squarciata da una risata fragorosa.Tamara è ripartita con una dedica e qualcosa da raccontare

La casa (1)

Una domenica mattina.

“Guarda, questo è lo Zettel’z 5 di Ingo Maurer. È il mio lampadario preferito”

Stiamo cercando casa e Nelly sta già pensando all’arredamento. Alzo gli occhi distrattamente dal libro e osservo altrettanto distrattamente.

“Non so dove andremo a vivere, ma questo sarà il lampadario” mi rassicura Nelly entusiasta mentre gira la pagina della rivista.

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“Foorse, l’abbiamo trovata”.

La voce di Nelly al telefono è più vellutata del solito. Il tono è quello delle grandi occasioni. Quello degli annunci. Anche se sta cercando di non svelare nulla quel “forse” allungato la tradisce.

“Sei convinta?” le chiedo quasi a bruciapelo.

“Penso di sì?”

“Mon amour, sei convinta?” Insisto.

“Sì”.

“Allora bloccala, dai l’acconto”

Non è importante che io veda la casa. Mi fido di Nelly. Ma soprattutto per me “casa” è dove c’è lei. Tutto il resto è geografia.

Nelly, io, Cookie e Zettel abbiamo trovato il nostro tetto sopra la testa.

(Giugno 2002, circa)

Ricomincio a scrivere 2019

Otto anni fa cominciavo a scrivere i primi post di questo blog. Era il terzo tentativo. La terza partenza verso un traguardo che si chiamava libro. Il libro non era importante. Era la mia carota. Era lì. A segnare il passo. Se avessi pubblicato un libro sarebbe stato un trionfo. Non ne fosse nato un libro, mi sarei divertito comunque. Era il 18 dicembre del 2011 e “Tutte le fortune” era un’utopia.

Il 10 novembre 2015, le librerie accoglievano “Tutte le fortune” sui loro scaffali. Un’emozione indescrivibile. Ripensando rapidamente a cosa è successo dopo mi vengono in mente questi ricordi.

Quando presentavo il libro spesso mi chiedevano perché mai avessi deciso di scrivere la mia storia. Regolata la questione dell’ego, perché è inutile che lo nascondiamo, chi scrive della propria vita lo fa anche per soddisfarlo, ho sempre pensato che ne sarebbe valsa la pena se almeno una persona avesse trovato nelle mie pagine uno spunto per risolvere un suo problema o reagire a una avversità.

L’ho trovata. Non voglio raccontare di lei perché ha passato una vita difficile ma quando alla fine di quel confronto con gli studenti di un liceo mi ha detto “fino ieri ero convinta di non farcela nella vita. Oggi so che ce la farò”, ho sentito tutti i tasselli scivolare comodamente al loro posto. Il libro aveva trovato il suo senso.

Scrivere un libro ti dona la gente. Le persone nuove. Persone che pensavi di avere perso, una fetta di parentela.

Vedo decine di volti. Tra questi, come posso non ricordare Antonio Roagna che ha voluto conoscermi. Lo ha fatto con una discrezione e una signorilità uniche, e in più mi ha organizzato una straordinaria presentazione ad Alba. Come posso non ricordare Carlo Coda che ogni volta che poteva assisteva a una presentazione oltre ad aver organizzato un incontro bellissimo a Reggio Emilia. Come posso non ricordare Luigi Carulli che indegnamente mi considera l’autore del libro più bello del mondo in organizzato una presentazione a Cremona facendo incontrare vecchi amici. Come posso non ricordare Leonardo Cardo. Quando l’ho visto arrivare era piccolo piccolo. Poi l’ho conosciuto e mi sono trovato al cospetto di un gigante. Insieme, grazie al suo entusiasmo, abbiamo fatto delle presentazioni epiche. Quasi degli spettacoli.

Come posso non ricordare la generosità di Legambiente che mi ha concesso di fare la prima presentazione nel corso del congresso di Milano del 2015. Ma soprattutto come posso non ricordare Rossella Muroni, entrata al congresso come direttore e uscita come presidente. Nel congresso che per lei aveva significati ed emozioni profondi, si è offerta di presentare il libro con me. E lo ha fatto dopo un’intera giornata a presiedere il congresso, quindi a moderare un convegno. Quando l’ho vista arrivare era esausta. Avrebbe potuto tirarsi indietro. L’avrei capita. Non lo ha fatto. E la presentazione è stata straordinaria per merito suo.

Oggi riparto. Non so dove arriverò. Di cose da raccontare ne ho ancora tante.

Tiburtina e l’elevatore: nascita di un’amicizia

Le solite, inutili, vuote parole rompono il silenzio. Hanno vita propria. Si animano e riempiono gli spazi che fatichiamo a sopportare: i silenzi.

“È stato a Roma per lavoro dotto’?”

“Si”

“Èannato tutto bene?”. Come se gliene fregasse qualcosa…

“Si”

“Caldo bestiale in questi giorni…”

“Nun me lo dica dotto’… Un’altra giornata così e moro”. Come se me ne fregasse qualcosa…

Continuiamo a fissare un punto imprecisato lungo le rotaie che accompagneranno Italo al binario 11. Ognuno in compagnia dei fatti suoi.

Rompo il silenzio.

“Come mai alla Stazione Centrale di Milano e Roma Termini l’elevatore è elettrico e qui a Tiburtina è a manovella?”

Il mio interlocutore, un addetto all’assistenza disabili si infiamma.

“Dotto’, che je devo dì”. E fa una pausa. Poi, si lancia: “Per costruire sta stazione hanno chiamato gli arcchitttettti, gli inggegnneri … i ppremi Nnobbel… e se so dimenticati ‘na presa di corente sul binario”.

Lo guardo. Alzo il sopracciglio. E ci facciamo una risata.

“Buon viaggio dotto’”

“Chiamami Ricky”

“Me chiami Maurizio”.

Leggi anche: Finché scegli uno c’è la salute…

tiburtina

“Io adoro le rotelle…”

E dopo due anni di collaborazione con Aida Partners come direttore dell’Area Sostenibilità & Economia Civile finalmente abbiamo il nostro ufficio! Il trasloco è veloce e indolore. Dopo due anni di pellegrinaggio quotidiano alla ricerca di una postazione libera o di una quotidiana negoziazione con Gabriella, la segretaria di direzione, per ottenere una sala, tutti i nostri documenti sono digitali. Archiviati più o meno ordinatamente nei nostri portatili.

Lunedì mattina entriamo nella nostra stanza e prendiamo le misure. Riempiamo la libreria. Assaltiamo la lavagna per dare ordine ai lavori. Ci dividiamo le postazioni. Beatrice e io ci insediamo in quelle principali. Carlo, il nostro assistente, giovanissimo, brillante, appassionato e di una sensibilità antica, di quelle che sono disposte a subire qualsiasi cosa pur di non creare problemi agli altri, viene smistato nella postazione dell’assistente. Bassa. Stretta. Le gambe chilometriche di Carlo faticano a trovare l’assetto giusto. Sono salvate da una seggiola hi-tech, espropriata dalla sala riunioni corporate, con il telaio in acciaio e il corpo in tessuto “avvolgente”. Sagomata. Molleggiata. Carlo è comodissimo.

Ma non ha fatto i conti con Gabriella. Irrompe in stanza spingendo una seggiola da ufficio simil Ikea con le rotelle sghembe.

“Questa è la tua sedia Carlo”. La spiegazione di Gabriella è decisa. Non ammette repliche.

Carlo cambia. Le ginocchia si assestano sotto il mento. Le braccia devono trovare la strada per la tastiera.

“Sei sicuro di essere comodo?”. Il lato materno di Gabriella non resiste.

“Sono molto comodo, grazie”.

“Ma sei sicuro?”

Beatrice e io osserviamo la scena perplessi.

“Guarda che se sei scomodo, ti rimetto questa”, insiste Gabriella molleggiando la seggiola hi tech.

“Per nulla Gabriella, ti ringrazio. Sono comodissimo”.

Intervengo. “Gabriella, lasciagli la seggiola hi tech. Non ti dirà mai che scomodo!”

“Scusa Carlo, pensavo che preferissi questa con le rotelle. Io adoro le sedie con le rotelle. Metterei rotelle dappertutto. Anche sotto i mobili”.

“No, è che…”.

Interrompo Carlo.

“Anch’io ho sempre adorato le rotelle… ma evidentemente devo aver sbagliato qualcosa…”

Ospite al convegno “Sclerosi multipla e narrazione” per raccontare la mia storia di paziente.

Quando il professor Comi convoca non ci sono alternative: si risponde presente. Tutto è cominciato sei mesi fa quando ho risposto a una telefonata di un numero sconosciuto. Dall’altro capo della comunicazione, una voce di donna mi invitava a partecipare al convegno sottolineando che il professor Comi aveva detto che non potevo non esserci. E così ci siamo trovati entrambi nella stessa sala: lui a presiedere il convegno, io a raccontarmi.

Naturalmente ho raccontato la nostra storia.