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PRIMA DELLA CIDP (EP.4)… cadere, rialzarsi, andare avanti: l’eredità del judo.

Proiettare (far volare) l’avversario è una questione di tecnica. Se la si applica correttamente funziona. Non importa che l’avversario sia più alto, più basso, più grasso, più forte. Se lo sbilanci e fai i movimenti giusti l’avversario vola. Se non vola hai sbagliato qualcosa. Non ci sono alibi. Questo vale quando l’avversario è fermo, in allenamento. In combattimento l’avversario si difende, contrattacca, attacca, schiva. Alla tecnica bisogna aggiungere scelta di tempo, per attaccare o schivare al momento giusto. Sensibilità per  “sentire” l’avversario, i suoi movimenti. Per anticiparlo. Se cerchi di “vedere” sei sempre in ritardo. Se perdi è probabile che tu abbia sbagliato qualcosa. Non ci sono alibi.
Facendo judo ho imparato una cosa: il judo non ti mente. E non ti permette di mentire. Non ti permette di mentire agli altri. E tanto meno a te stesso: il prerequisito. Ogni volta che attacchi o ti difendi, in allenamento o in gara, è un confronto con te stesso. Con come ti sei applicato, quanto ti sei allenato. Quanto ti stai concentrando. Ogni attacco, ogni difesa ti dice chi sei. A te il compito di capirlo e, se vuoi, di accettarlo.
Nel Judo Club Milano Due eravamo in tanti e bravi. Il maestro ci preparava bene tecnicamente. Molto bene. E ogni torneo le medaglie fioccavano. Categoria di peso per categoria di peso. Davamo fastidio alle palestre storiche dell’associazione. Tanto fastidio che, se potevano, gli arbitri ci giocavano contro. È capitato anche a me. Era naturale lamentarsi. Scaricare la colpa faceva bene allo spirito. Arrivato al Judo Club Sumo ho sbattuto contro la verità. Aveva le sembianze di Tomomasa Okamoto, il mio nuovo maestro. Giapponese. E come nella migliore tradizione diceva poco. Quasi nulla. Ma era incisivo.
Passato al Judo Club Sumo ho partecipato a quattro tornei nei primi due mesi. Quattro eliminazioni al primo turno. Non mi era mai capitato. La sera successiva alla quarta sconfitta, durante l’allenamento, il maestro mi chiama.
“Che risultato hai ottenuto ieri?” esordisce a bruciapelo, secco.
“Eliminato al primo turno” rispondo mortificato.
“Sei bravo. Perché hai perso?” continua il maestro, sempre più secco.
“L’arbitro…”, provo ad abbozzare la risposta. Il maestro mi interrompe bruscamente.
“Ippon!” esclama scavando nei miei occhi con i suoi.
“Ma maestro, l’arbit…”, provo a insistere.
“Ippon!”. È una lapide. Con un gesto deciso mi invita ad allontanarmi.
(L’ippon è il massimo risultato conseguibile in un incontro di judo, e attribuisce la vittoria immediata. Viene attribuito quando si proietta l’avversario con velocità, destrezza e decisione determinandone la caduta sulla schiena, oppure immobilizzandolo a terra, sulla schiena, per 30 secondi. O, infine, per resa dell’avversario come conseguenza di uno strangolamento o di una leva articolare)
Ho capito poco tempo dopo. La vittoria, la sconfitta non dipendevano dall’arbitro. Dipendevano da me. E dal mio avversario. L’ippon è la strada verso la verità. Che tu vinca o che tu perda ti dice chi sei in quell’istante. Avevo 16 anni. È stato un colpo. Mi sono guardato dentro. Ho incontrato ciò che non funzionava. Ho cominciato a cambiarlo. A migliorare. La tecnica, la preparazione, l’atteggiamento e, inconsapevolmente, il carattere. Le prestazioni agonistiche migliorarono drasticamente. Non mi sono mai più lamentato di un arbitro.
Rimettersi in piedi. Nel corso di un combattimento l’avversario attacca. Se non ti difendi bene cadi. Che tu abbia subito un ippon o meno ti devi rialzare. E andare avanti. A combattere se non hai subito ippon. Ad affrontare te stesso se hai subito ippon. Cadere. Rialzarsi. Andare avanti. Andare avanti con l’opportunità di conoscerti un po’ di più. Avendo la possibilità di essere migliore.
Dopo 10 anni, di quel bambino, non era rimasta traccia. Onestà intellettuale. Responsabilità. Rispetto per me stesso e per il prossimo. Spirito di sacrificio. Lealtà. Trasparenza. Sono l’eredità che il judo mi ha lasciato. In tutta la mia vita ho fatto di tutto per coltivare questi valori al meglio. Riuscendoci più o meno bene.
La CIDP mi ha fatto cadere spesso. Inciampando. Neurologicamente. Moralmente. Mi sono sempre rialzato. Sempre.

PRIMA DELLA CIDP (EP. 3)… 10 anni di judo

Non ricordo quando sia scoppiato l’amore con il judo. Mi ricordo che non perdevo una lezione. A un certo punto non ne potevo più fare a meno. Imparavo in fretta. Con naturalezza. E altrettanto rapidamente entravo nella squadra agonistica. Le lezioni diventarono allenamenti. E i risultati nei tornei incominciarono ad arrivare con sempre maggiore regolarità. Ero bravo. Tecnicamente preparato. Sufficientemente forte. Più preparato nel combattimento a terra che in quello in piedi.
Arrivarono le prime vittorie, che mi spartivo con Dedo: compagno di allenamenti prima. Grande amico poi. Le nostre vittorie divennero la regola. Più le sue. All’inizio era divertente. Ma presto incominciai ad “annoiarmi”. Anche perché non stavo più imparando. Tanto meno migliorando. Nei tornei gli avversari erano pochi. Come poche erano le palestre affiliate alla “Amici del judo”, un’associazione non riconosciuta dal CONI. Complice un contrasto con il maestro cambiai palestra ed entrai nel Judo Club Sumo, affiliato alla federazione nazionale. Avevo 16 anni. Fu la mia prima decisione di cambiamento.
Primo torneo: sconfitta al primo turno. Incredibile. Quasi impossibile. Un bel bagno di umiltà. Era importante reagire. Muovermi nella direzione giusta. Tecnicamente ero all’altezza dei miei avversari. Ma potevo migliorare. Dovevo migliorare. Soprattutto nel combattimento in piedi. Fisicamente avevo meno forza e meno resistenza. Dovevo allenarmi di più. Corsa: 7 km quattro volte alla settimana. Pesi: quattro volte alla settimana. Allenamento di judo: quattro volte alla settimana. Avevo 16 anni ed ero quasi un professionista! Sei mesi dopo vincevo il mio primo torneo. Un anno dopo il mio piazzamento minimo era la semifinale. A 19 anni mi classificai terzo ai campionati italiani per cinture marroni, categoria juniores.
A 20 anni dovevo passare tra i seniores. Un bel salto di qualità. Andava fatto con consapevolezza. Le difficoltà sarebbero cresciute. Avevo già combattuto in alcuni tornei open. E me l’ero cavata bene. Avevo vinto anche una medaglia di bronzo. Fare parte della categoria stabilmente era diverso. Ancora più  impegnativo. Avrei dovuto allenarmi di più. Ero abituato a gareggiare ai vertici. E al vertice volevo rimanere. Ma era giunto il momento di guardarmi dentro onestamente. Compresi che non avevo il talento judoistico per mantenere quel livello. Vincevo perché avevo più resistenza alla fatica dei miei avversari. Sembravo un fenomeno. In realtà li prendevo per stanchezza. Tra i seniores la preparazione fisica dei combattenti era mediamente superiore. Era giunto il momento di smettere. Chiusi con il judo.
10 anni di combattimenti, di disciplina. Ho vinto tanto quanto meritavo. Qualche piccola soddisfazione come la vittoria in un torneo internazionale. O come quella volta in cui entrai in sala peso nell’ultimo minuto valido e sentii avversari mai visti prima bisbigliare: “noooo… c’è anche Taverna”.

PRIMA DELLA CIDP (EP. 2)… l’incontro con il judo..

Allo Sporting Club di Milano Due ogni anno, Alessandro, Marta e io, venivamo iscritti ad un corso. Per me c’era stato il periodo del nuoto. Sottostando ai desiderata di papà che voleva che mi venisse un fisico a “V”. In quegli anni facevo due lezioni alla settimana. Gli altri giorni facevo 100 vasche al giorno. Poi c’è stato l’anno del tennis. In montagna, a Marilleva, ero forse l’unico che non sapeva giocare. Mi stavo stufando di fare lo spettatore. Volevo partecipare. Tra lezioni private e corso ho imparato una cosa. Il tennis e io non eravamo fatti l’uno per l’altro. Più prendevo lezioni più peggioravo. Nonostante facessi di tutto per capire, sentire, imparare.
Meglio cambiare. Mi ha incuriosito il corso di judo. Mi hanno iscritto. Il corso non è partito per carenza di iscritti. Un pomeriggio la segretaria dello Sporting Club telefona a casa per dirci che a Milano Due c’è una scuola di judo. È il Judo Club Milano 2. Quella sera faccio la prima lezione. Ho 12 anni. Non smetterò per i successivi 10 anni.
Le arti marziali, il judo nel mio caso, cambiano la vita. Trasmettono valori. Formano la personalità. Plasmano l’identità. Io ne avevo bisogno. È stata la mia prima grande scuola di vita.
(1976)