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CATANIA: AEROPORTO FONTANAROSSA … SI DECOLLA

Febbraio 2010. B2 Axioma diventa consulente di reputazione di SAI8, il gestore del servizio idrico integrato della provincia di Siracusa. In poco più di un mese le trasferte a Siracusa diventano settimanali. Viaggiando in aereo, imparo le regole di imbarco dei disabili. Tutto, naturalmente, accade con la compagnia del badante di turno.

Come tutti, comincio dal check in. Di fronte all’addetto, parte la lunga catena di passaggi che mi porteranno alla poltrona assegnata ai disabili sull’aereo. Registrazione della richiesta di assistenza. Registrazione della carrozzina come bagaglio. Parcheggio in “Sala amica”, la sala degli imbarchi assistiti. Chiamata del volo. L’addetto all’assistenza che mi accompagna al gate.

All’imbarco spesso passo per primo. Come da procedura. Prima di entrare nella carlinga, che sia dal finger o dal mezzo di assistenza con montacarichi incorporato, passo sulla carrozzina di servizio. Bassa, stretta, scomoda. Realizzata per percorrere i pochi metri del corridoio che, come un canyon tra le file di poltrone, separano il portellone dal posto per gli invalidi.

Avviene tutto secondo procedure studiate, provate e certificate. Le procedure sono sacre. Scolpite nella pietra. Violarle, aggirarle è impossibile. Anzi, vietato. Vietatissimo. L’aeroporto ha la responsabilità del disabile. La parola d’ordine è: nessun rischio.

Ore venti di un giovedì di luglio. Il finger si apre davanti alla mia carrozzina. Marco, l’addetto all’assistenza, la trattiene. Siamo nel punto più ripido. Richard, il badante dell’Ecuador, cammina ciondolando alla mia sinistra con la tracolla, la borsa con il computer, il suo zaino. All’aeroporto Fontanarossa di Catania i disabili si imbarcano per primi.

Ho perso il conto delle volte che sono passato dall’aeroporto alle pendici dell’Etna. Sono tante. Talmente tante da avere conosciuto tutti gli assistenti all’imbarco. Con alcuni i confini della semplice conoscenza sono stati superati. Tanto che se sanno che sono di passaggio si fanno cambiare il turno per rivedermi. Marco è quello con cui sono in maggiore confidenza.

Fuori dal portellone anteriore, il finger si allarga in una piccola piazzola dove si incrociano addetti alle pulizie, addetti alla stazione, hostess, steward, assistente allo scalo, operatori di carico. Ognuno con un compito. Definito da procedure collaudate.

“Non c’è ancora?”. Marco commenta laconico mentre prende la radio e informa la sala amica che la carrozzina di servizio non è ancora arrivata.

“L’abbiamo richiesta cinque minuti fa”, interviene la capo equipaggio. Indossa la divisa Alitalia senza la giacca verde. Mora con i capelli tagliati appena sopra la spalla. Viso affabile nonostante i lineamenti spigolosi. Occhi decisi.

I minuti passano. Al gate comincia l’imbarco. E i passeggeri sciamano lungo il finger. Per fermarsi a un metro da me. Dietro la banda che la capo equipaggio ha appena tirato attraverso il corridoio. Le procedure sono procedure. Devo essere imbarcato per primo. I minuti passano.

Marco contatta la sala amica. Sembra che in tutto lo scalo ci sia un’unica carrozzina di servizio e che si sia scatenata la caccia. Marco, la capo equipaggio e io scambiamo alcune battute. Richard ciondola il suo corpaccione alla Fred Flinstone da una gamba all’altra. I passeggeri attendono la carrozzina con impaziente serenità.

Non ho mai voluto che la CIDP mi ostacolasse. Non ho mai voluto che i miei limiti ostacolassero gli altri: parenti, amici, estranei. Nelly. Essere il blocco dell’imbarco comincia a infastidirmi. Non per imbarazzo. Perché i passeggeri dipendono da me. E io dipendo da una situazione che non controllo. Fino ad ora.

Mando Richard a depositare al nostro posto borse, pedane e cuscino. Le battute con Marco e la capo equipaggio, intanto, si sono trasformate in una conversazione sulla Sicilia. Richard emerge dalla carlinga. Si piazza a un paio di metri dalla carrozzina. Riprende a ciondolare. I minuti continuano a passare. Sono diventati venti. E della carrozzina di servizio nessuna traccia.

Chiamo Richard.

“Marco, ci vediamo la settimana prossima”.

“O-ok…”. Marco mi saluta confuso.

Metto il braccio destro intorno alle spalle di Richard. Che mi afferra pantaloni e cintura con la mano sinistra. In un attimo sono in piedi.

“Può portarla nella stiva”, comunico all’addetto facendo cenno alla carrozzina.

“Cosa fa!?”. Il capo scalo mi apostrofa.

“Vado al mio posto…”

“Le procedure…”, cerca di intervenire la capo equipaggio

La interrompo bruscamente. “Mi muovo sotto la mia responsabilità”.

“Ma…”, Riprova la capo equipaggio.

La blocco con un’occhiata perentoria e rassicurante.

“Facciamo decollare quest’aereo”. Ho messo fine a qualsiasi obiezione.

L’imbarco è terminato. Il portellone si è chiuso. L’equipaggio ha dato tutte le istruzioni. I passeggeri sono tutti seduti con le cinture allacciate. I propulsori stanno aumentando la potenza. Il finger si stacca dalla fusoliera. La capo equipaggio procede a passo di marcia verso la coda. Sta scrutando le ultime file. Mi vede. Si fa seria. Mi raggiunge. E mi dà la mano.

“Grazie. Grazie di tutto”

“Si figuri, l’avrebbe fatto chiunque”

“Grazie ancora”. Sorride. Si volta. E riparte verso la prua.

Fa pochi passi. Improvvisamente si ferma. Temporeggia un istante. Si volta di scatto. Fa un passo verso di me. Mi guarda negli occhi e dice: “no! Non è vero. Lei è un grande”.

 

(Luglio, 2010)

 

NON CE LA FACCIO PIÙ

Prima leggi:DALL’INTERFERONE AL TRAPIANTO DI MIDOLLO 

Mi hanno fregato. Oggi sono arrivati prima. Anzi, quasi subito. Febbre, tremori, dolore alle ossa. Non si sono palesati con la solita progressione. Mi hanno aggredito. Con veemenza. Pochi minuti dopo la puntura di interferone mi sto trascinando verso il letto.

Da tre mesi l’interferone mi tiene compagnia. Ogni fine settimana. Dopo cena si fa largo tra le fibre del gluteo. Viene assorbito. Tre ore dopo si presentano gli effetti collaterali. Spedisco una Tachipirina a contenerli. E vado a dormire. La domenica recupero. Da tre mesi tutti i fine settimana sono immolati all’interferone. Nessuno escluso. Ma, soprattutto, nessun effetto sulla CIDP.

Mi lascio cadere sul letto. Stanco. Demoralizzato. Mi sdraio. Sistemo il piumone. Appoggio la testa sul cuscino. Tremori e dolore arrivano alla fase acuta. Prendono il controllo. Chiudo gli occhi. Mi arrendo agli effetti collaterali. Non oppongo resistenza. Lascio che mi attraversino.

Sono stanco. Stufo. Gli anni di lotta alla CIDP si fanno sentire. All’improvviso. Come il dolore dell’interferone. Un peso mi schiaccia l’anima. Inaspettato. La pressione aumenta. Che senso ha? Che senso ha combattere?

Il respiro si allunga. Si fa più profondo. Più lento. Nel petto si gonfia il disagio. Lungo. Profondo. Lento. Inspiro dal naso. Lungo. Profondo. Lento. Espiro dalla bocca. Lungo. Profondo. Lento. Disagio, tensione, frustrazione. Si mescolano nel petto. Lungo. Profondo. Lento.

“Perché?”. Sussurro. Tremando. Non è l’interferone.

Lungo. Profondo. Lento. Nel petto le prime crepe. Il respiro si incasina. Naso. Bocca. Naso. Naso. Bocca. Naso. Bocca. Bocca. Bocca. Lungo. Profondo. Lento.

La pressione aumenta. Voglio urlare tutta la mia frustrazione. Il peso è allucinante. Anni di visite, terapie, ricoveri, aghi che cercano e non trovano vene per aspirare sangue, abocat che cercano e non trovano arterie per infondere immunoglobuline, elettromiografie. Anni di adattamento, a imparare da un cane come bere il caffè dal bicchierino, a inventarmi un modo per mettere il dentifricio sullo spazzolino, tenere la forchetta, aprire la porta di casa. Anni di accettazione di una condizione debilitante che mi ha costretto a rinunciare a fare e accettare di dipendere da qualcun altro per allacciare i polsini prima, poi i bottoni, poi la cerniera, poi le stringhe, poi le calze, poi ogni mese una nuova rinuncia. Anni di gestione della malattia. Proteggendo la mamma. Combattendo contro papà. La sua morte. Anni di lotta. Anche contro le illusioni dei miglioramenti. Anni controllati e liberati da una puntura di interferone. Come se l’ago avesse bucato l’involucro che ne custodiva la sofferenza. Naso. Naso. Bocca. Lungo. Profondo. Lento. Voglio urlare. Gli anni di sofferenza mi bloccano. Mi tagliano il fiato.

Arriva. Finalmente arriva. Si gonfia. Cresce. Supera la palpebra e rotola giù per la guancia. Poi un’altra. Un’altra ancora. Sempre più spesso. Non oppongo resistenza. Le lacrime diventano un rivolo. Piango. Il respiro si rompe. I singhiozzi rompono definitivamente il respiro. Lungo. Profondo. Lento. Veloce. Corto. Piango a dirotto. Sommessamente.

Fuori dalla camera sento dei passi. Si fermano dietro la porta. Piango e singhiozzo sommessamente. Aspetta dietro la porta. E ascolta. La maniglia si piega lentamente. Lentamente la porta si apre. La lama di luce taglia il buio. Marta!

Esita. Poi si avvicina al letto.

“Ricky, cosa c’è?”. Parla sottovoce.

Veloce. Veloce. Profondo. Naso. Naso. Bocca. Piango. Meno sommessamente.

“Ricky, cosa c’è?”. Seduta sul bordo del letto continua a parlare sottovoce.

Piango. Sommessamente.

“Ricky, cosa c’è?”. Sussurra.

Passano pochi lunghissimi secondi. Marta mi abbraccia. La sua guancia si appoggia delicatamente alla mia. Le mani mi stringono le spalle.

Sto condividendo la mia frustrazione. Disagio, sofferenza e dolore esplodono.

Piango tutta la mia disperazione. Non trattengono nulla.

La moquette del corridoio attutisce il rumore dei passi. La porta della camera si apre un po’ di più. Mamma…

“Rick…”

Marta lentamente volge lo sguardo verso la sagoma illuminata dal lampadario nel corridoio. Avvicina l’indice alla bocca e soffia delicatamente “sssssh”.

Poi, delicatamente, indica un punto immaginario del corridoio. Mamma capisce. Si gira. Abbassa la testa. Si allontana accostando la porta.

Non ho più energie. Il pianto è diventato un soffio sottile. La disperazione ha trovato le riserve più segrete. Ne ha fatto razzia.

Marta ci riprova.

“Cosa c’è Ricky”. Il sussurro la fa sembrare lontanissima.

“Non ce la faccio più…”.

“Lo so…”.

Rimaniamo lì. Fermi.

Mi addormento. Con mia sorella che mi abbraccia.

Non siamo mai stati così vicini.

——————————

Domenica mattina. Mi trascino verso il bagno. Mi siedo sul water. Alzo la testa lentamente. I miei occhi incrociano il mio sguardo nello specchio. Abbasso il mio. Gli occhi gonfi mi riportano alla sera. Devo affrontarmi. Rialzo lo sguardo fino ad incrociarmi.

“Va tutto bene…”. Mi dice.

“Va tutto bene…”. Rispondo.

“Sei pronto a scegliere?”. Mi domanda.

“Come sempre…”. Rispondo.

“La vita. Con dignità. Sempre”.

Il serbatoio di energia si sta ricaricando.

(Febbraio, 1998 circa)

 

EROI QUOTIDIANI

Stiamo conversando amabilmente da mezz’ora. Da quando ci siamo seduti a questo tavolino infernale. Piccolo. Attaccato al muro. Come la mia spalla. Schiacciata contro l’intonaco per cercare di tenere le gambe sotto il ripiano di legno. Avrei già cambiato posto se non fosse per il timore ingiustificato di far cadere la tensione della chiacchierata. Non ho mai raccontato la mia quotidianità senza l’uso delle mani con cosi tanta naturalezza. Soprattutto alla prima uscita. Rita ci è riuscita. La domanda diretta. Pronunciata attraverso il suo sorriso sempre acceso, sotto gli occhi spalancati alla vita. Offerta senza curiosità morbosa ma per arricchirsi ascoltando il racconto di un’altra esistenza. Carnagione scura sotto un casco di capelli nerissimi. Minuta. Arguta e raramente banale. Rita fa succedere le cose con semplicità.

I limiti nel vestirmi. I problemi a mangiare. Spazzolarmi i denti. Le conseguenze sulle relazioni. La fine della storia con Daria. Gli amici straordinari. Vivere la vita con il rispetto che si deve a un dono. Non mollare mai. Racconto i fatti. Racconto le sensazioni e le emozioni. Racconto le prospettive e come le affronterò.

“Ricky, sei quello che chiamo eroe quotidiano”.

Gli occhi scuri mi scrutano con delicatezza per incrociare la mia reazione. All’ascolto il suono di quelle parole inaspettate. Eroe quotidiano. La mia inclinazione vanitosa mi fa sentire l’armonia del suono. Che gracchia appena le ascolto con sincerità.

“No, Rita. Non sono un eroe. Gli eroi sono altri. La vita è così complicata che già solo alzarsi la mattina è un atto eroico. Ma questo lo facciamo tutti. Pensa a quelle persone che aprono gli occhi ad ogni sorgere del sole sapendo che la loro giornata sarà identica a quella precedente. Uguale. Tutti i giorni sempre la stessa. Tutti i giorni. E che non possono rischiare di cambiare perché hanno il mutuo da pagare, i figli da mandare a scuola. Non penso che da bambini sognassero di fare una vita così. Eppure, ogni mattina si alzano e fanno quello che devono fare. Per senso di responsabilità. Loro sono gli eroi quotidiani. Io sono un privilegiato. Faccio il lavoro che ho sempre desiderato. Lo faccio bene, penso. Di fronte al loro coraggio, mi imbarazza pensare di essere un eroe”.

Sono passati quasi 20 anni. Sono su una seggiola a rotelle e continuo a pensare che gli eroi quotidiani sono altri. Ne ho conosciuti molti. Tanti tra i badanti che ho incrociato. Uomini che hanno lasciato le sicurezze, seppur minime, spesso moglie e figli, per aspirare a una vita migliore in paesi che si dimostrano spesso ostili.

 

(Novembre, 1994 circa)

 

UNA CADUTA, LA REAZIONE DI NELLY

Il portone di via Bartolomeo Giuliano si chiude pesantemente alle nostre spalle. La macchina ci aspetta dall’altra parte della strada. Parcheggiata a cavallo del marciapiede. Nelly mi precede. Si avvia verso sinistra, dove il marciapiede è più basso. Da dove posso scendere più agilmente. Misuro i passi mentre mi avvicino al varco tra due auto parcheggiate. Arrivo con il piede sinistro. Quello giusto. Rallento. E appoggio il piede destro sull’asfalto. Sono giù. È andata bene un’altra volta.
Siamo andando al cinema a vedere “The Hours”, il racconto della depressione di Virginia Wolffe interpretata, pare, da una magistrale Nicole Kidman. Nelly ci tiene tantissimo. Abitiamo insieme da un mese. Mi sono trasferito da lei una settimana dopo ladecisione di sposarci. Ho negoziato un po’ di spazio nei suoi armadi. E ho lasciato la mia tana di via Mac Mahon.
Dal marciapiede continuo a muovermi verso la macchina. Nelly mi sta seguendo. Attraversiamo via Bartolomeo Giuliano. Sono concentrato sul movimento delle gambe. Come al solito da quando ho ripreso a camminare dopo il trapianto di midollo. Appoggio il tallone del piede destro. Sposto il peso in avanti spingendo con la gamba sinistra. Appoggio la pianta del piede destro. La spinta della gamba sinistra si esaurisce. Arriva il momento più delicato. Il passaggio del peso dalla gamba destra a quella sinistra. Stacco la gamba sinistra. Il ginocchio della gamba destra si deve piegare, ma leggermente. Un movimento appena accennato, perché non ho sufficiente forza nella gamba per sostenere una flessione normale. Comando l’azione. La gamba non obbedisce. Rimane tesa. Come un’asta. E come un’asta mi proietta verso l’alto.
Mi sento spingere in su, leggerissimo. I piedi si staccano dall’asfalto. Volo. Non so spiegare il motivo, ma scendendo verso la strada, ruoto. Sto per cadere sul fianco destro. Devo proteggere le costole. Faccio appena in tempo a coprire il lato destro con il braccio e a preoccuparmi della reazione di Nelly che via Bartolomeo Giuliano mi accoglie con uno schianto. Il colpo mi taglia il fiato. Oltre a procurarmi alcune leggere escoriazioni sul braccio. Mentre l’aria torna a farsi strada nei polmoni, cerco Nelly. Non riesco a percepirla. Tanto meno a percepire la sua reazione. Non può che essere agitata. Devo tranquillizzarla.
“Buono, tranquillo, stai fermo e non ti muovere”. La voce è controllata e rassicurante. Nelly è in ginocchio al mio fianco. Cerco il suo viso. Ha l’espressione della massima concentrazione.
“Ti sei fatto male?”
“Aspetta…”. Ruoto sulla schiena. Muovo la gamba destra. Nessun dolore. La spalla destra è a posto. Il gomito ammaccato. Mi siedo e faccio tre respiri lunghi e profondi. Ogni volta che inspiro provo una leggera fitta al costato destro.
“Devo avere incrinato una costola”, spiego a Nelly.
“Andiamo al pronto soccorso…”.
“Ma no, mon amour, per una costola incrinata non è necessario. E poi non è la prima volta…”.
“Cosa vuoi fare?”
“… Andiamo al cinema… Gabriele e Iolanda ci stanno aspettando”.
La reazione di Nelly è straordinaria. Vederla reagire alla caduta con prontezza, controllo e concentrazione, pronta a reagire mi riempie di orgoglio. Un’altro motivo che la rende sempre più speciale. E la consapevolezza che insieme a lei posso raggiungere qualsiasi vetta.
Quel giorno c’è stata una cosa peggiore della caduta: il film.
(Maggio, 2003)

LAVARMI I DENTI

“Cazzo…”. Incomincio a perdere la pazienza. È il quarto tentativo. Fallito. Come i precedenti. Tutte le volte lo spazzolino da denti è caduto sul fianco. Urtato dal tubetto del dentifricio.

Da alcuni mesi le mani hanno ripreso ad indebolirsi. Tanto da non consentirmi di tenere in mano oggetti come una penna, una posata, lo spazzolino da denti. Un’operazione banale come spremere il tubetto del dentifricio con la mano destra sulle setole dello spazzolino che tengo con la mano sinistra è diventata impossibile mesi fa. La soluzione è stata semplice. Intuitiva. Prima appoggio lo spazzolino sul lavandino. Poi afferro il tubetto del dentifricio con due mani. Avvicino la bocca del tubetto alle setole. Spremo la pasta schiacciando il tubetto tra le mani. Poi passo allo spazzolino. Lo afferro, sempre con due mani. Lo infilo in bocca. E, ancora con due mani, spazzolo i denti. L’operazione è meno complessa di quanto sembra. Il risultato finale decente.
Stamattina non ci riesco. Non riesco a controllare il movimento delle braccia. Avvicino la bocca del tubetto allo spazzolino e, un attimo prima di spremere la pasta, urto le setole. Lo spazzolino cade sul fianco. E ricomincio. Sono nel bagno dell’appartamento numero quattro di Villa Manos a Naoussa. Isola di Paros. Ugo è in piedi alla mia destra. Si sta già lavando i denti. Con la coda dell’occhio mi scruta senza intervenire. Se non riesco a controllare le braccia dovrò chiedergli di intervenire. Ugo lo sa ma aspetta. Giustamente.
Quinto tentativo. Fallito. Osservo lo spazzolino appoggiato sul suo fianco sinistro. La frustrazione monta. Mi guardo allo specchio. Sto per cedere e chiedere aiuto a Ugo. Un’occhiata al tubetto. Sospiro rassegnato. Poi, un lampo. Guardo le setole pigramente adagiate sul bordo del lavandino con aria di rivalsa. Infilo il tubetto in bocca. Spremo il dentifricio. Afferro lo spazzolino con due mani. Lo infilo in bocca. E spazzolo vigorosamente per quanto la CIDP mi consente. Trionfo!
Ugo è sorpreso e divertito. “Cazzo! Grande!… Volevo proprio vedere come te la saresti cavata! Non ci sarei mai arrivato”.
(Quando Ronan mi intervista per il rinnovo della consulenza in Dow Jones Markets Italia mi chiede della mia attitudine al problem solving. La mia attitudine? Quella che ha risolto il problema di lavarmi i denti).
(Luglio, 1992)

MOMENTI DI DEBOLEZZA

Lo specchio non mi tradisce mai. Ogni mattina, quando ci incontriamo, mi scruta con discrezione, mi guarda dentro e formula la sua sentenza. Freddo, cinico, onesto. Lo specchio del bagno mi restituisce quello che sono, dentro. E lo fa con un gesto semplice e profondo. Mi guarda negli occhi. Se abbasso lo sguardo, se sfuggo a me stesso, e mi capita, il significato è inequivocabile: devo porre rimedio.

Ho scelto di affrontare la malattia. Con coraggio, determinazione e serenità. Senza recriminare. Senza cercare compassione. Senza approfittare della mia debolezza per aggirare gli ostacoli. Assumendomi le mie responsabilità. Sempre. La malattia è diventata così parte della mia vita. Non la mia vita. Sono convinto di esserci riuscito. E ci sono riuscito nonostante la vita mi abbia sfidato continuamente: il tradimento di un amico, la slealtà di un socio, la cattiveria di chi mi fidavo, la truffa di un infame, l’infarto, il Parkinson. Ho risposto ad ogni sfida. Ne ho vinte. Ne ho perse.
Alcune sconfitte mi hanno fatto mettere in dubbio le mie scelte. Ho il diritto di mollare? Si. Ho il diritto di smettere di combattere? Si. Ho il diritto di fermarmi, sedermi, e in virtù di una malattia invalidante far ruotare il mio universo intorno a me? Si. La gente ha il diritto di criticare la mia resa? No. Ho il diritto di riposare? Ogni risposta è legittima. E lentamente i dubbi diventano una certezza: Ricky è arrivato il momento della resa.
La mattina dopo l’incontro con lo specchio è inesorabile: abbasso lo sguardo. Sorrido. Fuggire da me stesso è impossibile. Respiro profondamente. La vita è un dono ineguagliabile e io ho il dovere di viverla. Comunque e in qualsiasi condizione. La vita vissuta senza dignità è un dono rifiutato, rispedito al mittente. Esco dal bagno e riprendo la sfida. Fino al prossimo momento di debolezza che affronterò sapendo già come andrà a finire.
(Mentre finisco di scrivere sento dal soppalco il tamburellare delle dita di Nelly sulla tastiera. Il rumore dei tasti mi ricorda il dono straordinario che la vita mi ha fatto: mia moglie, l’altro motivo per affrontare le giornate con dignità).
(13 giugno 2013, ore 00:24)

GRILLO E L’ESAME DI MATEMATICA

Prima leggi: GRILLO E L’ESAME DI PROGRAMMAZIONE E CONTROLLO

Inizio l’anno sabbatico con grande determinazione. Per arrivare alla laurea devo passare quattro esami. Con il vincolo di matematica, la materia che mi ha sempre fatto dannare. Se non lo passo non posso sostenere Statistica, Economia Politica Due, Politica Economica e Scienza delle Finanze. Sono passati tre anni dall’esame di Pianificazione e Controllo. Allora a scrivere ero lento. Oggi non ci riesco proprio. Le dita della mano destra mi hanno abbandonato. Torno dal dottor Grillo.
L’incontro è cordialissimo. Sempre a modo suo. Linguaggio colorito e metafore sopra le righe, una passione straordinaria per l’università e gli studenti. I suoi studenti. Telefona all’Istituto di metodi quantitativi e mi presenta. Mezz’ora dopo sto spiegando le mie condizioni di salute al direttore dell’istituto.

“Quindi non riesce a scrivere”, conclude il direttore togliendosi gli occhiali e sfregandosi gli occhi. Un modo per prendere tempo e trovare una soluzione.
Annuisco per non distogliere la sua attenzione. Sembra impegnato a risolvere la teoria della relatività.
“Bene. Se non riesce a scrivere non darà l’esame scritto. Si presenti all’orale”, mi spiega il direttore con tono solenne e conclusivo.
“E come lo sosterrò”, domando candidamente. Ho il forte sospetto che non abbia afferrato il problema.
“Come tutti gli altri”, risponde il direttore con tono ovvio.
“Con gli esercizi?”
“Certamente”. Il tono del direttore ancora più ovvio. Omette di dire “ma che domanda…”, ma l’espressione sorpresa lo tradisce.
“Professore”. Faccio una pausa per assicurarmi la sua attenzione. “Non riesco a scrivere…”. Lo dico sottolineando ogni parola, perando che il concetto si sedimenti nella sua memoria.
“Già”, annuisce come se avessi inserito una nuova variabile nella teoria. Il direttore è assorto. “Non farà gli esercizi”.
“E le dimostrazioni dei teoremi?”.
Questa volta me lo chiede. “Scusi cosa c’entrano dei dimostrazioni dei teoremi?”.
La risposta è prevedibile quanto la domanda: “Professore, lei mi insegna che per dimostrare un teorema bisogna scriverlo”. Cerco di non essere impertinente.
“È vero – continua il direttore – faccia così, dimostri di aver capito il senso generale della matematica”.
Sono perplesso. Molto perplesso. Devo capire cos’è il senso generale della matematica. Anche se temo che un’altra domanda faccia saltare il banco. “Professore, abbia pazienza per cortesia. Come mi preparo?”.
Pensava di essersela cavata. Invece è in difficoltà. Si affanna a cercare una risposta. Una risposta qualsiasi. Più per levarmi di torno. “Ce l’ha il testo della teoria?”
“L’Avondo Bodino Guerraggio, si”.
“Impari a memoria gli enunciati dei teoremi”. Problema risolto.

“Si accomodi”. La professoressa mi invita a sedermi mentre allontana gli altri studenti. Meglio che non assistano al mio esame, pena una sollevazione di massa. Non riesco a scrivere. Ma se non le si osservano attentamente le mani sembrano normali.
Ho cercato di prepararmi. Ma ho scoperto che le motivazioni sono basse. Bassissime. Tre anni e mezzo senza studiare, a lavorare producendo risultati e divertendomi, mi hanno fatto perdere il “passo” dell’apprendimento meccanico. Esco di casa sapendo di espormi al ridicolo.
La professoressa mi chiede di enunciare un teorema nel quale dovrei pronunciare la formula “retta tangente ad una circonferenza”. Non ci riesco. Pensavo che mi sarei reso ridicolo ma non fino al punto di dire “riga che tocca un cerchio”. Enuncio il teorema reinterpretandolo con parole mie. Mentre parlo la professoressa fissa un punto sul foglio di fronte a lei. Quando finisco alza la testa lentamente. I miei occhi perplessi incrociano il suo sopracciglio talmente inarquato da urlare: “macché cazzo sta facendo?”. Sto violentando la matematica e il mio sorriso di scuse le sta dicendo sommessamente: “sono mortificato”.

La professoressa prende la parola. “Senta, se le do diciotto finiamo questa farsa?”.

Due settimane dopo aver passato l’esame di matematica Emmanuelle mi chiamava per propormi di entrare in Dow Jones.
(1995, circa)

TRAPIANTO DI MIDOLLO: RAZIONALE TERAPEUTICO E L’OMBRA DELLA MORTE

Prima leggi: DALL’INTERFERONE AL TRAPIANTO DI MIDOLLO
Prima leggi: IL PROF. (EP.1)… non farti visitare da quello

Le gambe si appesantiscono. Le braccia sembrano sotto anestesia. La mano destra quasi inutile. L’idea del Prof., il trapianto di midollo, è di una logica ineccepibile. Nella CIDP gli anticorpi deviati percepiscono la mielina come un intruso. E lo attaccano. Questo è avvenuto a un certo punto della mia vita. Intorno ai ventidue anni. Autotrapiantandomi il midollo il sangue viene riportato allo stato di origine. Quando tutto ebbe inizio, funzionava come doveva. La logica vuole che l’autotrapianto darà alla mielina un lungo periodo di tregua nel corso del quale si ricostruirà. E, per la stessa logica, io migliorerò.
L’autotrapianto del midollo in un caso di CIDP è sperimentazione pura. Nessuno ha mai provato. Il caso più simile è la sclerosi multipla. Alcuni pazienti sono stati sottoposti ad autotrapianto di midollo in alcuni centri mondiali. Ma i risultati tardano.
L’incertezza, forse l’innovazione troppo spinta, cominciano a frenare Il Prof. “E poi – mi spiega – le probabilità di morte sono troppo alte”.

“Quanto alte?” domando per nulla intimorito.
“Il 2%”.
Io credo fermamente nella logica, nel razionale terapeutico. Non temo l’esperimento. Non temo la morte, tanto meno il 2% di probabilità. Ho una sola certezza. Se sopravviverò, migliorerò.

È un tempo in cui Il Prof. e io ci incontriamo spesso. Una visita di controllo al mese. Una visita che aspetto sempre con ansia. La speranza che sia la volta in cui mi dirà “ok, partiamo con il trapianto” è fortissima. Ogni visita si trasforma in una sfida dialettica. Io che cerco di convincere uno dei neurologi più affermati del mondo a seguire una strada della quale non è convinto. Ho perso in partenza. Dovrei avere perso in partenza.
Le probabilità di morte, l’insormontabile e pericoloso 2%, sono il motivo di confronto con gli amici. La mia grande famiglia. Con la mamma ne parlo il minimo indispensabile. Parlare del trapianto le riempie gli occhi di tristezza e paura. E, pur provandoci, non riesce a nasconderlo.
Lo stallo si prolunga. Finché una mattina, il giorno prima di una visita di controllo,….
(1998, circa)

LA MANO, DARE LE COSE PER SCONTATE

È lì. In fondo al braccio. È sempre lì. Presente. Affidabile. Sempre pronta. 27 ossa, muscoli, nervi, tendini, pelle. Tutto assemblato nello strumento più straordinario che la natura abbia concepito: la mano. È lì, in fondo al braccio, alla periferia dell’io, ai confini della consapevolezza. Quasi una appendice. Eppure non si può far altro che arrendersi all’evidenza. La mano è un miracolo. Afferra, accarezza, costruisce, scrive, parla, scopre, vede, sente, ama, legge, crea, difende, attacca, trasporta, dipinge, scolpisce. E non ci accorgiamo di lei.

Comincio a perdere la funzionalità delle mani. Lentamente. E mentre elaboro strategie alternative per compensare la loro progressiva latitanza, cresce la consapevolezza di loro. Altrettanto lentamente. Più si allontanano, più le riconosco. Riconosco le tenaglie con le quali sfidavo il vento di Hyeres nella Francia meridionale. A L’Almanarre, la spiaggia del windsurf, domavo un quasi-Mistral senza agganciare il trapezio. Tenevo il boma con le mani fino a quando la pelle sui palmi cominciava a bruciare. Riconosco lo strumento di precisione. Penso alle volte che ho tenuto un uovo con due dita. Senza farlo cadere. Senza schiacciarlo. E penso a tutte le piccole operazioni quotidiane che le mani compiono. E sono quasi ignorate.
Grazie alla mano, la vera meraviglia del mondo, le idee diventano realtà. I più grandi capolavori come tante altre “opere di ingegno” si materializzano così. E tra i capolavori riconosciuti, le “opere di ingegno” quotidiane. I piccoli tesori che si realizzano ogni giorno. Una lettera, una  carezza, un piatto di pasta. Tutto ciò che facciamo e che diamo per scontato. Come diamo per scontata la mano, lì in fondo al braccio. E quando la perdiamo, ci ricordiamo di che capolavoro sia.
Le mie mani sono diventate delle vere appendici. Non le uso più. Sono il lontano ricordo di un capolavoro. Mi hanno insegnato a non andare nulla per scontato. Una sfida che ogni tanto perdo. Allora guardo le mani e vedo il mondo da un’altra prospettiva. Più piena. Completa.
Il badante ha sostituito le mie mani. Stepan è il capolavoro.

L’UFFICIO, LO ZIP E LA PIPÌ

Arriva il momento in cui la CIDP mi presenta il primo conto: la debolezza delle dita. Comincio così a perdere i primi automatismi. E devo escogitare strategie alternative. Alcune sono immediate, come afferrare il bicchiere con due mani. In alcuni casi non esistono. Soprattutto quando non riesco più a compiere i movimenti fini come allacciare i bottoni o tirare su lo zip dei pantaloni. E questo è un problema quando vado in bagno. In un modo o nell’altro riesco a slacciare i pantaloni. Ma quando ho finito ho bisogno d’aiuto per allacciare i pantaloni e tirare su lo zip.

Il problema si fa serio quando comincio a lavorare. Non c’è la confidenza per chiedere a chiunque di accompagnarmi in bagno, ad aspettare fuori ed entrare per chiudere i pantaloni. In MGD, il mioprimo ufficio, la soluzione è inaspettata. Dopo pochi giorni inizio una relazione con Guendalina. È la figlia dei signori Duncan e lavoriamo insieme. Mi aiuta lei. L’ambiente piccolo e familiare rende tutto più semplice.
Dopo MGD e alcuni mesi sabbaticiarriva la proposta di Dow Jones. Il primo giorno entro nella sede di via Amedei. Arrivo al banco della reception. Un fulmine mi colpisce. Come faccio con il bagno? Semplice. Non ci vado. Non tocco goccia d’acqua. Me ne dimentico proprio, sia dell’acqua che della pipì. Sono le nove.
La giornata finisce alle 19:30. Esco. Prendo la macchina, e torno verso casa. Non c’è molto traffico. In venti minuti sono a casa. Esco dall’ascensore. E mentre suono il campanello ho la sensazione di esplodere. Un riflesso condizionato. La tranquillità di casa sveglia improvvisamente la vescica. La porta non si apre. La pressione aumenta vertiginosamente. Mi attacco al campanello.
La porta si apre. Finalmente. La mamma sull’uscio mi saluta con il sorriso delle grandi occasioni.

“Ciao! Come è andata?”
Non le do il tempo di finire. La spingo di lato e irrompo in casa. Corro verso il bagno. La vescica sta per cedere.
“Seguimi”.
Arriviamo in bagno. Sono salvo.

Secondo giorno in Dow Jones. Lavoro tutto il giorno senza fermarmi. Non bevo. Non vado in bagno. Arrivo a casa più tardi. Mi attacco al campanello. La porta si spalanca. La mamma che ha capito tutto, si è nascosta dietro. Corro verso il bagno con la mamma a ruota. Sono salvo anche questa volta.
Continuerò così per un anno e mezzo.
(1994, circa)