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“CI ROVINIAMO LE BUDELLA?”

Prima leggi: IL GRANDE IVAN (EP.1): il colloquio

“Vecio, andiamo a rovinarci le budella?”.

Capita più spesso di sabato. Quando rientriamo dopo la prova Paola Valenti. O tornando a casa da qualche commissione impedita dalla frenesia della settimana. Così Ivan punta il muso della Mercedes Classe A blu verso il McDonald’s più vicino. Per rovinarci le budella con hamburger, patatine e un litro di coca-cola annacquata da decine di cubetti di ghiaccio.

“Vecio, andiamo a rovinarci le budella?” non ha mai significato “ho fame”. È la misura del legame che si può creare con un badante. Sedersi intorno a un tavolo con un amico e chiacchierare senza meta. Un vincolo che va oltre la disabilità e il bisogno di assistenza.

Quattordici anni fa Ivan ha smesso di essere il mio badante. Ogni tanto un telefono squilla. Dall’altro capo della connessione una voce squilla: “Vecio, andiamo a rovinarci le budella?”. Allora rubo un’ora e mezza alla giornata e scappo con Ivan da un McDonald’s a chiacchierare. E a stendere le budella.

ELETTROMIOGRAFIA: L’ESAME DEI "FASCISTI".

Prima leggi: POLINEUROPATIA DEMIELINIZZANTE INFIAMMATORIA CRONICA (CIDP): la mia malattia
Prima leggi: IL GRANDE IVAN (EP.1): il colloquio

L’Elettromiografia è un esame strumentale che studia il sistema nervoso periferico costituito da nervi e muscoli. Misura l’attività elettrica dei muscoli e la conduzione elettrica dei nervi. Con la CIDP non si scampa all’elettromiografia perché è l’esame che misura le performance di gambe e braccia. Il loro peggioramento, spesso. Il loro miglioramento, qualche volta.
Protagonista dell’esame: l’elettricità. Per misurare la conduzione dei nervi il neurologo identifica il tronco nervoso, applica un elettrodo a un’estremità, per esempio un dito, e un elettrodo all’altra estremità, per esempio il gomito. Poi, fa partire una scossa. La macchina a cui sono collegati gli elettrodi misura il tempo che l’impulso elettrico impiega a percorrere la distanza. Il neurologo misura la distanza tra gli elettrodi, il gioco è fatto. Per misurare l’attività elettrica dei muscoli il neurologo inserisce un ago, con un elettrodo all’estremità, nel muscolo. Poi chiede al paziente di contrarre il muscolo. E così registra l’attività elettrica.
Arrivo nell’ambulatorio. Mi spoglio e rimango in boxer. La stanza fredda e spoglia. Un lettino. Una sedia. Un attaccapanni. Una scrivania che sembra li per caso. L’elettromiografo. Sul muro un poster del corpo umano con il sistema nervoso in evidenza.
Mi accomodo sul lettino con il lato destro verso l’elettromiografo. Braccio destro e gamba destra, il lato che, dall’esordio della CIDP è sempre stato più debole. Da un certo punto di vista è una fortuna. Non esamineranno il lato sinistro. Elettrodo intorno a un dito. Elettrodo appoggiato sotto il gomito. Scossa. Il braccio destro sussulta. Il monitor disegna una leggera curva. Insufficiente per la valutazione. Aumentano la potenza. Scossa. Il braccio destro sussulta di più. E questa volta fa male. Curva insufficiente. Aumentano la potenza. Scossa. Il braccio salta.

“Tenga fermo il braccio”. Il tono del neurologo è quasi distratto, meccanico. Non nasconde un rimprovero.
“Ci provi lei con le sberle che mi sta tirando”. Rispondo con il tono di chi si rivolge a un idiota.
Scossa. Il braccio salta. La curva è sufficiente. Il dolore forte.
Altro tronco nervoso. Altro giro.

Un colpo secco. E l’ago è nella coscia destra.

“Spinga giù il ginocchio”, comanda il neurologo.
Eseguo. La coscia si contrae. L’ago mi da fastidio. Un fastidio tremendo. E il neurologo muove l’ago per meglio intercettare l’attività elettrica. Il fastidio diventa dolore.

L’esame è finito. Il neurologo e l’assistente escono. Ivan e io rimaniamo soli.

“Sono sicuramente fascisti”, mi dice di Ivan mentre mi aiuta a vestirmi.
“Perché?”.
“Perché per scegliere di fare un esame come questo devi essere per forza fascista”. Ivan è categorico. “E poi hai visto che facce? Nasi appuntiti, magre, guance scavate. Fascisti. E poi, non mi piace chi ti fa male”.

C’è stato un periodo in cui facevo due elettromiografie all’anno.

IL GRANDE IVAN (EP. 2)… riprendere a camminare e la "prova Paola"

Improvvisamente, nove mesi dopo il trapianto di midollo (dicembre 1999), il mio fisico incomincia a reagire. Prima del trapianto ero “al limite” della seggiola a rotelle. Camminavo comunque, appoggiato a qualcuno. Per i primi nove mesi dopo il trapianto la situazione era rimasta invariata. Poi, una mattina, alzandomi dal letto mi sono quasi ribaltato in avanti. Troppa forza. Troppa forza!? La forza stava tornando nelle gambe e a una velocità imbarazzante.  
Decido di allungare le camminate appoggiato a Ivan. Devo riprendere confidenza sia con la forza che torna che con il “movimento” di camminare. O meglio, “i movimenti” del camminare. Lentamente riprendo confidenza con i movimenti delle gambe. Non devo più concentrarmi sull’alzare il ginocchio, lanciare la gamba in avanti, tenere sollevata la punta del piede, appoggiare il tallone, “cercare” di passare dal tallone alla punta del piede senza sbattere la pianta: stanno tornando ad essere movimenti naturali. Decido di incominciare a camminare “staccato” da Ivan.
Le distanze che percorro da solo si allungano: 20 m, 50 m, 100 m, 200 m, 500 m, 900 m. Presto supero il chilometro. La fatica è improba. E scopro che è una fatica psicologica. Ho paura di cadere. Ho paura di cadere e di rompermi un osso. Vorrebbe dire interrompere questo percorso di miglioramento che mi sta entusiasmando.
Ne parlo con Ivan e trovo la soluzione: devo cadere. O meglio, devo imparare a cadere. Capire quello che succede alle mie gambe e alle mie braccia, nelle condizioni deficitarie in cui si trovano, quando cado. Come si muovono. Come le controllo, se riesco a controllarle. Non posso essere io a decidere quando cadere. Inconsciamente preparerei la caduta. Devo ricreare le condizioni di una caduta imprevista, inaspettata. La soluzione finale: camminare, senza appoggiarmi a Ivan, fino a quando le gambe non mi reggono più. Devo svuotarle di energie. A quel punto cadrò senza preavviso. E imparerò a gestire la caduta.
Decidiamo di fare questo esercizio ogni sabato pomeriggio al Centro Sportivo 25 Aprile. Camminerò lungo la linea del fallo laterale del campo da calcio… almeno cadrò sul morbido. Ivan mi aspetterà seduto su un cuscino del salto in alto. E quando sarò caduto mi raggiungerà e mi aiuterà ad alzarmi.
Con il passare delle settimane arrivo rapidamente a superare i 2 km. Cado sul campo da calcio. E mi libero dalla paura di cadere. La camminata si fa sempre più sciolta. Il trapianto di midollo è un trionfo!
Improvvisamente, un sabato pomeriggio Ivan si stacca dal cuscino del salto in alto e incomincia a correre verso di me. Serio. Mi raggiunge. E incomincia a prendermi a spintoni sempre più decisi sul petto e sulle spalle.
“Ivan! Cosa cazzo stai facendo!” urlo in preda a un misto di rabbia e terrore.
“Vecio – mi risponde dolcemente con un ghigno sotto i baffetti – è la prova Paola”.
Il grande Ivan è un genio!
Paola è il direttore marketing di una Società Quotata per la quale stiamo facendo una consulenza in comunicazione al mercato finanziario. È una donna brillante, in gamba, estroversa, alta quasi quanto me. Diventiamo presto amici. Un’amicizia che dura tutt’oggi. Al termine delle riunioni mentre ci accompagna all’uscita parliamo del più e del meno. E Paola ha l’abitudine di gesticolare molto, fino a toccare l’interlocutore: sull’avambraccio, sul gomito, sopra la spalla. È pericolosa? Ivan ne è convinto.
“Vecio, dille di non spingerti. È pericoloso, può farti cadere” mi dice spesso Ivan, sinceramente preoccupato.
“Vecio – gli rispondo – va bene così. Non posso pretendere che tutto il mondo giri intorno a me. Se voglio che la gente mi percepisca come una persona che vive una vita normale non posso imporre delle limitazioni. Se Paola mi tocca quando parla, cosa che fa con tutti, vuol dire che non mi vede diverso dagli altri. E questo è un mio successo. E poi, in fondo, è come se fosse un esercizio!”
Da quel sabato pomeriggio la camminata sul campo da calcio del Centro Sportivo 25 Aprile si è sempre conclusa con “la prova Paola”. Smisi di cadere. Per svuotare le gambe di energie avrei dovuto camminare ore.
(Febbraio 2002, circa)

IL GRANDE IVAN (EP.1): il colloquio

Ero alla ricerca di un nuovo badante. Dovevo trovarlo urgentemente e in gamba. Vivevo da solo da pochi giorni e Florenzo mi aveva fatto passare tutti i limiti di sopportazione. Ero pieno di incognite. Sei mesi prima avevo fatto un trapianto di midollo e non c’erano segnali di reazione. Alla mamma, colpita da un mesotelioma, restavano poche settimane, se non giorni. Ero andato a vivere da solo per un po’ per obbligo, un po’ per necessità e convinzione da pochi giorni. Avevo assolutamente bisogno di un badante sveglio, pronto di spirito, reattivo, disponibile.
Ero in ufficio, quello del ficus farloccus. Suonarono alla porta.
“Ho un colloquio con Riccardo Taverna”
“Di là, si accomodi”, indicò Stefania o forse Alessandra.
Non entrò nella mia stanza. Fece irruzione… un tornado. Non feci in tempo a finire di dire buongiorno che era seduto in punta di sedia davanti alla mia postazione, i gomiti appoggiati al tavolo. Avvicinandosi aveva già incominciato a parlare. Deciso, controllato, l’ansia che ogni tanto faceva capolino. Un torrente in piena.
“Buongiorno, sono Ivan. Sono in Italia da tre anni con mia moglie. Siamo a Milano da un mese e abbiamo bisogno di lavorare. Io ho bisogno di lavorare, lei ha bisogno di aiuto. Io sono disponibile a fare qualsiasi cosa. Sono disponibile a imparare in fretta. Chiedo solo una cosa: se sbaglio non urli, mi spieghi. Lo stipendio non è un problema”, disse non distogliendo il suo sguardo dal mio.
Straordinario! Non avrei voluto sentirmi dire altro in un colloquio.
“Ok”, risposi controllando l’entusiasmo.
Poi la sorpresa. Infilò la mano nella tasca posteriore dei pantaloni ed estrasse il passaporto. Me lo diede.
“Perché?”, gli domandai.
“Lo tenga lei. È la garanzia della mia serietà. Così se faccio qualche cavolata lei ha il controllo assoluto su di me”, rispose convinto. Si stava consegnando a me!
“No. Il nostro sarà un rapporto basato sulla fiducia reciproca. E questo non è il modo migliore di incominciare”, gli dissi restituendo il passaporto.
Andò così, più o meno. Fu l’inizio di un rapporto meraviglioso che presto si trasformò in un amicizia che continua tutt’oggi, anche se ci sentiamo poco e per colpa mia.
(Luglio 2001)