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Tiburtina e l’elevatore: nascita di un’amicizia

Le solite, inutili, vuote parole rompono il silenzio. Hanno vita propria. Si animano e riempiono gli spazi che fatichiamo a sopportare: i silenzi.

“È stato a Roma per lavoro dotto’?”

“Si”

“Èannato tutto bene?”. Come se gliene fregasse qualcosa…

“Si”

“Caldo bestiale in questi giorni…”

“Nun me lo dica dotto’… Un’altra giornata così e moro”. Come se me ne fregasse qualcosa…

Continuiamo a fissare un punto imprecisato lungo le rotaie che accompagneranno Italo al binario 11. Ognuno in compagnia dei fatti suoi.

Rompo il silenzio.

“Come mai alla Stazione Centrale di Milano e Roma Termini l’elevatore è elettrico e qui a Tiburtina è a manovella?”

Il mio interlocutore, un addetto all’assistenza disabili si infiamma.

“Dotto’, che je devo dì”. E fa una pausa. Poi, si lancia: “Per costruire sta stazione hanno chiamato gli arcchitttettti, gli inggegnneri … i ppremi Nnobbel… e se so dimenticati ‘na presa di corente sul binario”.

Lo guardo. Alzo il sopracciglio. E ci facciamo una risata.

“Buon viaggio dotto’”

“Chiamami Ricky”

“Me chiami Maurizio”.

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Finché c’è la salute…

“… In fondo Riccardo, che te devo dì,… finché c’è la salute…”

“Maurizio, guarda che quello è un concetto sopravvalutato”

“Riccardo, che stai a dì? Quando c’hai la salute puoi fare quello che vuoi…”

“Maurì, cosa stai facendo?”

“Te stò a spingere la carrozzina”

“Appunto Maurì”

“E c’hai ragione pure tu, Riccà”

 

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(Maurizio, con Danilo e Fabrizio, fanno parte del servizio di assistenza della Stazione Tiburtina a Roma. Ci conosciamo dall’estate del 2015. Andare a Roma significa anche avere un appuntamento con loro. I pochi minuti che passiamo insieme sono diventati un’abitudine irrinunciabile)

 

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