Le solite, inutili, vuote parole rompono il silenzio. Hanno vita propria. Si animano e riempiono gli spazi che fatichiamo a sopportare: i silenzi.
“È stato a Roma per lavoro dotto’?”
“Si”
“Èannato tutto bene?”. Come se gliene fregasse qualcosa…
“Si”
“Caldo bestiale in questi giorni…”
“Nun me lo dica dotto’… Un’altra giornata così e moro”. Come se me ne fregasse qualcosa…
Continuiamo a fissare un punto imprecisato lungo le rotaie che accompagneranno Italo al binario 11. Ognuno in compagnia dei fatti suoi.
Rompo il silenzio.
“Come mai alla Stazione Centrale di Milano e Roma Termini l’elevatore è elettrico e qui a Tiburtina è a manovella?”
Il mio interlocutore, un addetto all’assistenza disabili si infiamma.
“Dotto’, che je devo dì”. E fa una pausa. Poi, si lancia: “Per costruire sta stazione hanno chiamato gli arcchitttettti, gli inggegnneri … i ppremi Nnobbel… e se so dimenticati ‘na presa di corente sul binario”.
Lo guardo. Alzo il sopracciglio. E ci facciamo una risata.
“Buon viaggio dotto’”
“Chiamami Ricky”
“Me chiami Maurizio”.
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