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L’INIZIO (EP. 9)… Il cortisone e l’abbandono della medicina tradizionale.

Analisi del sangue, elettromiografia, puntura lombare. Sono gli esami principali del primo ricovero al Besta. L’acronimo CIDP non era ancora stato inventato. E la diagnosi era radicolo nevrite periferica a carattere infiammatorio ai quattro arti oppure polineuropatia periferica infiammatoria. Oppure una combinazione delle due. In pratica la malattia veniva definita con la descrizione dei sintomi. Un segnale di resa, in quel periodo, di fronte alla causa e alla sostanza della malattia. E la terapia non era da meno: il cortisone. Il farmaco per tutte le stagioni. Un antiinfiammatorio per l’infiammazione al mio sistema nervoso.

Il cortisone comporta due problemi: una serie interminabile di effetti collaterali e l’assuefazione. Perché continui ad essere efficace va somministrato in dosi crescenti con un inevitabile ripercussione sulla pesantezza degli effetti collaterali. Osteoporosi, azzeramento del potassio (il mattone dei muscoli), ritenzione idrica, acidità di stomaco, problemi alle reni. Reagisco alla terapia. I sintomi della radicolo nevrite arretrano. Mentre avanzano gli effetti collaterali. In incognito, perché nessuno me li racconta. Dopo due anni il dosaggio è altissimo. L’effetto sui sintomi minimo.
Per caso, parlando con un’amica, mi viene in mente di capire meglio il farmaco che mi sta lentamente lasciando per strada. E scopro gli effetti collaterali. Il dosaggio che mi stanno somministrando mi espone seriamente al rischio di osteoporosi. Rido. Pochi giorni prima ho fatto una visita di controllo. Il primario mi ha dato l’ok per l’inverno sciistico. Grottesco. Grottesco nella misura in cui mi sento mandato allo sbaraglio. Grottesco perché sto distruggendo il mio corpo per salvare il sistema nervoso. Grottesco perché mi rendo conto di quanto il medico tratti il paziente con sufficienza. Grottesco perché il primario è lo zio della mia fidanzata. È il momento in cui decido di assumere il controllo. La prima decisione: lasciare la medicina tradizionale. E affidarmi all’agopuntura.

L’INIZIO (EP. 8) … Uick (Io) non si deve stancare e il sesso

PRIMA LEGGI: L’INIZIO (EP.7) … Ricky non si deve stancare

“Dottor Greblo, come faccio a capire come sta Riccardo, se peggiora?”. Per una madre, un figlio ammalato è una sfida in cui getta tutta se stessa. L’istinto di protezione, la voglia del suo bene la spingono oltre tutti i limiti di sopportazione fisica e psicologica. Deve farlo guarire. E ci riesce spesso. La malattia degenerativa è devastante. Per il figlio che la subisce. Per la madre che vede il figlio spegnersi lentamente. Il vigore della madre si infrange quotidianamente contro l’ineluttabilità della degenerazione. L’istinto di protezione, sistematicamente castrato dall’incapacità di far cambiare la rotta, cerca nuovi varchi. Trova nuovi modi di esprimersi.
Nonostante io non voglia, la mamma si muove dietro le quinte. Chiede, indaga, cerca di capire. Si batte nell’ombra. E nell’ombra sfoga la sua frustrazione. Le amiche che accolgono la sua tristezza. Con me invece non cambia. Almeno nei primi anni. Sorride. S’arrabbia. Come al solito. Della malattia con me parla il minimo indispensabile. Il suo modo di proteggermi. Il suo modo di lottare. Tenermi tranquillo.
“Come faccio a capire come sta Riccardo, se peggiora?”.

Pagina è in alto “Guardi come muovere le mani, se si stanca prima, se dorme meno”. Il Dottor Greblo, il nostro medico della mutua, da alla mamma una serie di indicazioni puntuali.
“Grazie dottore”, conclude la mamma.
“Si figuri. Buona sera …. Aspetti! L’ultima volta che Riccardo è venuto a farsi visitare mi sono dimenticato di chiedere una cosa. Lo faccia lei per me, per favore”.
“Mi dica”.
“Gli chiede se le sue prestazioni sessuali sono peggiorate?”.
“Certamente”.

Certamente!? La mamma è estroversa, chiacchierona, parla di tante cose. Ma parlare di sesso no. Non ci riesce. A parole è una madre moderna. E per alcuni aspetti lo è. Ma il sesso fa emergere il suo lato borghese. Non me lo chiederà mai. A costo di non saperlo. Però la pulce è entrata nell’orecchio. E ogni giorno si insinua sempre più in profondità.

Da due anni sono fidanzato con Diane. Francese per metà. Estroversa, brillante, arguta, a volte irriverente. Impossibile da mettere in imbarazzo. Diane e la mamma non potevano che andare d’accordo. Vanno tanto d’accordo che, alle volte, quando Diane mi telefona a casa e risponde la mamma possono passare minuti a chiacchierare prima che me la passi.
“Buongiorno signora, sono Diane, c’è il Uick”. La simpatia di Diane è accentuata da una “erre” così francese da uscire come “u”. In quegli anni sono stato Uick per quasi tutti. Oggi, a distanza di oltre vent’anni, lo sono ancora per lo straordinario clan Bucciarelli.

“Sì c’è, Diane. Come stai?”
“Bene grazie. Lei?”
“Io sto bene Diane, come va l’università?”
“Insomma signora, sto faticando con diritto penale”.
“So che è duro. Anche il figlio di …”. E la mamma racconta l’aneddoto del figlio di un’amica con la sua solita maestria. Diane domanda. Ride. Scherza.
“Comunque signora, io mi impegno al massimo”.
“Lo so Diane, hai un gran carattere. Sono proprio contenta anche per il Rick”.
“Anch’io sono fortunata”. Diane risponde sempre a un complimento con un complimento.
“Ormai sono due anni …”
“Sì …”
“Siete proprio una bella coppia, e non lo dico da mamma”.
“Si, … e poi il Rick è sempre gentile”.
Diane incomincia a cercare di capire dove stia puntando la mamma. La mamma sta prendendo la rincorsa.
“Sai Diane, sono un po’ preoccupata per la sua malattia”.
“Anch’io un po’. Ma stia tranquilla sono molto innamorata e gli sto vicina”. Diane rassicura la mamma, pensando di aver capito.
“Lo so Diane, sei proprio una brava ragazza. … A proposito … quando … siete soli … fate …”. La mamma fa una pausa sperando che Diane capisca.
Diane afferra il passaggio: “certo signora. D’altra parte abbiamo 25 anni …”.
“Certo, certo …”, interloquisce la mamma mettendosi sulla difensiva. E le pause si allungano.
“E … e … – cerca di continuare la mamma – tu … tu … come … come ti trovi?”. La mamma riesce a concludere tutto d’un fiato.
“Ah, benissimo”. Risponde Diane per nulla intimorita.
La mamma prende coraggio.
“Non è che il Rick … con la malattia …”. La mamma si lancia.
“Oh signora, guardi, non potrei essere più soddisfatta”, risponde Diane di botto.
La mamma vede il traguardo. E si carica.
“Ecco Diane, non farlo stancare”. Missione compiuta. Ha scoperto delle mie prestazioni sessuali e si è liberata del fardello della protezione del figlio. Ora è tranquilla. Rilassata. Ma non conosce Diane fino in fondo che risponde con la velocità del fulmine.
“Non si preoccupi signora, se si stanca vado sopra io”, rassicura con assoluta decisione.
La risposta è inaspettata quanto destabilizzante.
“Vai sopra tu … ?”. La domanda della mamma è istintiva. Domanda scandendo le parole lentamente. Contemporaneamente cercando la risposta.
“Sii signora, sto sopra io”, spiega Diana tranquillamente.
“Ah già … si, si”, risponde la mamma cercando di darsi un tono e mal celando l’imbarazzo.
La mamma rompe il silenzio di una lunga pausa.
“Diane”
“Si”.
“Giurami che non dirai mai al Rick di questa telefonata”.

Ho saputo di questa conversazione da Diane. Non stavamo più insieme da alcuni anni. Non ho mai detto nulla alla mamma.
(1990 circa)

L’INIZIO (EP.7) … Ricky non si deve stancare

“Ricky,  sei stanco?”. La domanda di Guido è legittima: sono appena caduto.
“Affatto”, rispondono mentre mi spazzolo la neve dai pantaloni colpendo la coscia con le mani.
“Dai ragazzi, riposiamoci un po’”. È Ugo a chiederlo. Dalla mia caduta sarà passato un minuto.
“Stai scherzando! Tu che hai bisogno di riposarti!? Non ci credo”. Sto  sfottendo Ugo sfacciatamente esponendomi   alle sue ritorsioni. Dei miei amici è in assoluto il più permaloso. Ma compensa con  una grande generosità. Se entri nel suo cuore  ti  dà tutto.
Siamo a metà della pista nera di Folgarida. La neve è  fantastica, dura e compatta. Gli sci tengono in modo magistrale. Nella vita di uno sciatore le giornate che rasentano la perfezione sono poche. Questa è una di quelle. È pomeriggio inoltrato, voglio farla un’altra volta. E non possiamo fermarci. Rischiamo di perdere l’ultima  seggiovia per Marilleva.
“Ugo, non rompere. Abbiamo appena il tempo di farla un’altra volta”,  polemizzo. “Non fare il coniglio”, cerco di fare leva sul suo ego con l’epiteto che ci lanciamo in università quando non ci presentiamo ad un esame.
“Ricky dai – interviene Guido – prendiamocela comoda così non ci stanchiamo”.
Ancora con la stanchezza. O sono ossessionati oppure…
“Ragazzi, mia mamma  vi  ha detto qualcosa?“
“Cazzo dici?” rispondono quasi contemporaneamente.
“Ok. Cosa vi ha detto?”
Venerdì sera, prima di partire, mamma si era appartata con Ugo e si era raccomandata che mi controllassero: con il “problema” che stava comparendo  era meglio che non mi stancassi. Non si era rivolta a  me. Aveva preferito vigilare da lontano. Aveva preferito non affrontarmi direttamente. Un contorsione che avrei capito molto tempo dopo. Due anni dopo la sua scomparsa.  Voleva solo proteggermi dalla sua ansia, quella  resa acuta e  lacerante dall’incertezza. In fondo per la  risonanza magnetica al cervello anch’io avevo cercato di proteggerla. Dovevano passare quasi 15 anni prima di scoprire quanto di lei fa parte di me.
(febbraio 1988, circa)

L’INIZIO (EP. 6)… durante il primo ricovero

Mamma e papà sono appena usciti dalla stanza. È sera e sono stato ricoverato. I miei due compagni di stanza e io siamo rimasti soli. Antonio e io cominciamo a conoscerci. Cioè, sono io a conoscere lui. È inarrestabile. Non smette di parlare. Racconta.
“Otto anni fa ho fatto un incidente. Ho battuto la testa e mi hanno asportato un pezzo di cranio. In questo ricovero finalmente mi metteranno una placca per chiudere il buco. Così riacquisterò la piena funzionalità del lato sinistro. Sono stato ricoverato in questo reparto un sacco di volte. Conosco tutti. E, capiscimi, conto qualche cosa. Se hai bisogno di qualcosa dillo a me. La chiederò io per te. Così le cose accadono più in fretta”.
La mattina dopo, fatto il prelievo con l’infermiere strabico, fatta la colazione sono a letto ad aspettare. Sarebbe bello riuscire a fare tutti gli esami in tre o quattro giorni. La caposala entra in stanza e mi vede. Trasecola.
“Taverna. Cosa fa ancora in stanza?” domanda guardandomi con gli occhi sbarrati.
Blocca un infermiere che passa in corridoio. Lo convoca in camera.
“Vi ho detto – sibila la caposala – che Taverna deve fare tutti gli esami entro la mattinata”.
“Se non ci sbrighiamo questo sì dimette” strilla la caposala allontanandosi.
Antonio mi guarda confuso. Entro l’una ho finito gli esami: due prelievi di sangue, la visita neurologica, l’anamnesi, l’elettromiografia, la puntura lombare. Ci doveva essere anche la biopsia del nervo ma mi sono opposto.
Nel pomeriggio sono sdraiato nel letto. Dopo la puntura lombare consigliano di rimanere coricati per 48 ore e bere tanto per evitare il mal di testa. Ho finito l’acqua. Chiamo un infermiere. Mi risponde che me la porterà subito. Antonio sospira: “era meglio che la chiedessi io. Questo è lento”.
Cinque minuti dopo l’infermiere torna con l’acqua. Antonio non si raccapezza. La confusione gli sta scavando il volto di rughe. Si sporge verso di me con fare carbonaro.
“Scusa Ricky – mi domanda con discrezione – ma tu chi sei?”
La mia fidanzata Diane è la nipote del primario” rispondo come se nulla fosse, soffocando una risata.
Antonio mormora. Le rughe si rilassano. Mi guarda: “quando ho bisogno puoi chiedere tu per me?”
“Con piacere Antonio”.
(Dopo l’inserimento della placca Antonio ha recuperato la funzionalità del lato sinistro)
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 “Ricky… ma sei scemo!? Ti ricordi che dall’altra parte del corridoio c’è la chirurgia (neurologica)!”.
La voce di Ugo, in quel momento forse l’amico più importante, mi raggiunge da dietro le spalle. Sono seduto sul bordo del letto con la schiena rivolta verso la porta. Chiunque entri viene ricevuto da un cervello che indossa un paio di Ray-Ban Wayfarer sopra la scritta “La mattina vorresti non avere un cervello”. È la campagna di marketing della Lobotomy Beer.
A luglio, a New York, non ero riuscito a resistere. La maglietta mi ricordava il DIMER. E il primo grottesco ricovero. Averla comprata era come avere esorcizzato quei giorni. E se mi avessero ricoverato nuovamente…
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Negli orari di ricevimento c’era una folla. Un pezzo del bar dell’università si mescolava con il gruppo dei corsi di apprendimento efficace. Quel pomeriggio saremo stati più di 15.
“Attenzione prego. Il signor Pierluigi Ratti per favore” comanda l’infermiera dal centro della sala mentre toglie con enfasi il cappuccio dall’ago della siringa.
Pierluigi sbianca. Ha il terrore delle punture. Entrare in un ospedale è un’impresa epica. L’idea che un ago stia per violare una delle sue natiche lo paralizza: fissa in silenzio la mano dell’infermiera. Sempre più pallido. Forse ho esagerato. “Pierluigi! Pierluigi, è uno scherzo… è uno scherzo!”
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(Dicembre 1987)

L’INIZIO (EP. 5)… il primo ricovero

È una sorpresa. Che io mi ricordi non è mai entrato nel bar della Bocconi. Albert si ferma sull’ultimo gradino e comincia a guardarsi intorno. Incrocia il mio sguardo. Sta cercando me, obiettivo raggiunto. Mi fa un cenno mentre mi viene incontro. L’espressione seria non gli si addice. Gli sorrido.
“Chiama casa, i tuoi ti stanno cercando… nulla di grave”. E mi accompagna al telefono pubblico.
” Vieni a casa – mi dice papà – devi andare in ospedale”.
Non ne sapevo niente. Discuto un po’. Non mi piace l’idea che mamma e papà abbiano agito alle mie spalle. Il letto all’Ospedale San Raffaele lo hanno trovato grazie a Monica, mia cugina, che lì fa l’oncologo. Cedo.
Sono al dipartimento di medicina riabilitativa, il DIMER, da otto giorni. Continuo a raccontare la storia della mia vita ai medici che vengono a interrogarmi. Non uno che mi abbia visitato. Non uno che mi abbia parlato di esami. Alle mie domande, risposte evasive. Vaghe. Sto perdendo tempo. Non ci sto. Tra 15 giorni, il 14 luglio, ho un appuntamento a New York con il vice presidente della Young & Rubicam per presentargli il progetto della mia tesi di laurea, e non posso né voglio rinviarlo. Ho ottenuto questo incontro con le mie sole forze. Senza aiuti, né spinte, né presentazioni. Non avrò una seconda possibilità. A prescindere, la sola idea di perdere tempo mi fa incazzare.
Meglio affrontare il problema direttamente. Fermo un infermiere. Gli chiedo chi è il medico che dovrebbe seguirmi, insomma quello che decide. Me lo faccio indicare. Lo raggiungo e mi presento. Soprattutto gli domando qual è il programma. Dopo l’iniziale stupore mi risponde con tono saccente come se fossi un cretino:
 “deve sapere …, non può capire…, la vengo a visitare settimana prossima, poi facciamo il primo esame, vediamo l’esito, poi facciamo il secondo esame…”.
Lo interrompo infastidito: ” ok!… ho capito!”.
Lo lascio lì nel corridoio, salutandolo a mala pena. E mi dirigo verso il telefono pubblico.
“Papà, vieni a prendermi, torno a casa”.
” Riccardo, ti hanno dimesso?” Mi domanda ingenuo.
“No! Mi sto per dimettere io”.
” Arrivo Riccardo. Aspettami e non fare il pirla…”.
Sto attraversando l’Atlantico. Destinazione New York. Mi sono dimesso quel pomeriggio giustificandomi con la storia della tesi di laurea: “capisce dottore, è un’opportunità unica… appena torno mi rifaccio vivo…”. Avrei preferito dire la verità. Che la gente non può perdere le giornate a guardare il soffitto di una camera d’ospedale. Scelgo la linea “diplomatica”. Anche per tutelare la reputazione di Monica che, in fondo, si è spesa per me.
Uscendo dall’ospedale ero convinto che non mi avrebbero più rivisto. Invece il DIMER sarebbe diventata una “seconda casa”.
(Giugno 1987)

L’INIZIO (EP. 4)… chiropratica e il problema è risolto.

Punto della situazione: le braccia si stanno indebolendo, la sensibilità delle mani sta diminuendo. Potrebbe essere un nervo. O meglio. Potrebbe essere una vertebra schiacciata. Ne sto parlando con Antonello. È stato un mio allievo dei corsi di apprendimento efficace (memoria e lettura rapida). Siamo diventati amici. E ora io sono un suo allievo di kung fu, stile Wing tsun. Antonello è, ancora oggi, una persona speciale. E un maestro straordinario. Meticoloso e osservatore sensibile, si accorge quasi subito dei miei deficit seppur non siano ancora evidenti. Parliamo. Ci confrontiamo. Arriviamo all’ipotesi della vertebra schiacciata. Spiegazione facile. Comoda. Razionale. Che prevede una soluzione immediata: sbloccare la vertebra.
La visita con il chiropratico è stata più che positiva. Ha riscontrato vertebre schiacciate, vertebre spostate di lato, vertebre spostate in avanti. Insomma, una colonna vertebrale piuttosto malconcia, molto probabilmente l’eredità di 10 anni di judo. Ottimo! È la conferma che il problema non è grave! Un ciclo di sedute dal chiropratico e tornerò come nuovo.
Sedute dal chiropratico e intervento alle otturazioni. La forza torna. La sensibilità pure. Passo l’estate sul windsurf. “Mamma! Sto tornando come prima! È passato tutto!” grido nel telefono da Hyeres. Mamma si commuove. Ho passato tutto il giorno sulla tavola. Ho planato. Ho strambato. Fatica: poca . Pochissima. Si. Il problema è risolto. Sto tornando come prima.
(Maggio-agosto 1987)

L’INIZIO (EP. 3)… alla ricerca di una spiegazione

Che io abbia un “problema” è assodato. La forza sta calando e la sensibilità pure. Oggettivamente. Potevo accorgermene prima? Sicuramente. Prima del fine settimana sciistico c’erano stati dei segnali inequivocabili. Era sufficiente coglierli. Farsi le domande giuste. Darsi delle risposte oneste. Mettersi in discussione. Invece ha prevalso l’atteggiamento superficiale del  “figurati se mi può capitare qualche cosa di grave” che mi ha portato a dare spiegazioni di comodo a sintomi incontrovertibili. Insomma, era meglio non vedere. Soluzione: risolvere il “problema” ignorandolo. Tanto una mattina mi sveglierò e sarà tutto come prima.
La risonanza magnetica aveva dato esito negativo. Era incominciata “la caccia” alla spiegazione del problema. E contemporaneamente avevo incominciato a ricostruire il passato recente alla ricerca dei primi segnali, quelli che non avevo voluto vedere.
Segnale 1, il più antico.
In via Castelbarco, quasi all’angolo con via Sarfatti, c’era il Baby Bar. Era piccolo, ordinato, a conduzione familiare. Era la conduzione familiare vecchia maniera. Quella che sa rendere tutti importanti. Quella che si ricorda del tuo nome e del tuo panino preferito fin dalla prima volta. Ai tempi dell’università Giampaolo e io l’avevamo eletto il nostro ritrovo per il pranzo: per l’ambiente, per la bontà dell’hamburger e, soprattutto, per il videogioco “COMMANDO”, ispirato al film di Schwarzenegger. Giampaolo, una delle amicizie più belle nate nelle aule dell’Università, e io ci sfidavamo in continuazione.
Di per sé il gioco era stupido. Con il mitra attaccato al pianale dovevi fare secchi tutti i cattivi nascosti dietro le baracche del campo di prigionia o in mezzo alla foresta prima che loro ammazzassero te. Era importante arrivare al quadro finale con tutte le “vite”. Erano necessarie per vincere la sfida con l’ultimo “cattivone”: l’elicottero. Strategia: scaricare tutti i caricatori alla massima velocità. Giampaolo e io arrivavamo all’ultimo quadro sempre appaiati. Lui abbatteva sempre il suo elicottero. Io, quasi mai. Non sparavo abbastanza colpi. Non tiravo il grilletto abbastanza velocemente. Il mio dito indice della mano destra sembrava lento. Anzi, si stancava!!! Come cazzo può stancarsi un dito? Può! Se sei all’esordio di un problema neurologico al quale, in futuro, daranno il nome di CIDP, può!
Ignorando il segnale, incomincio a tirare il grilletto con il dito medio. Anche i miei elicotteri precipitano! Problema risolto!
Segnale 2, la panca e i pettorali
Nel  corso del periodo più intenso del Judo agonistico avevo smesso di fare pesi al Club Conti e mi ero costruito una piccola palestra in cantina. Risparmiavo tempo e… soldi. Avevo smesso di fare Judo da almeno due anni ma continuavo ad allenarmi in palestra. Alla panca, per allenare bene i pettorali, facevo tre serie da dieci ripetute con 90 kg, cinque in più del mio peso.
Ogni settembre, rientrando dalle vacanze ripartivo da 60 kg. Con calma. Alla fine di settembre ero sempre a pieno regime: 90 kg.
Quel settembre invece no. Non riesco a superare gli 85 kg. Pazienza, per cinque chili. A fine ottobre sono sceso a 70 kg. Per forza. Studio come un matto. Lavoro tanto. Dormo poco: quattro-cinque ore per notte. A fine novembre faccio la panca con 35-40 kg. Strano. Comunque è sicuramente stanchezza. Una comoda auto diagnosi. Dormirò un po’ di più. Dormo di più. I kg rimangono 35. Che strano ma… pazienza…
Segnale 3, i corsi di formazione e il pennarello
Improvvisamente si lancia dalla sedia in prima fila e si butta ai miei piedi!
“Cosa cazzo sta facendo – penso interdetto – il fascino dell’istruttore arriva a tanto?!”
“Tieni Ricky, ti è caduto il pennarello”, mi sorride l’allieva del corso di memoria e lettura rapida.
“Grazie…”.
Pennarello caduto. Moquette sul pavimento. Sono concentratissimo a gestire una parte motivazionale fondamentale per il successo del corso. È naturale che non me ne sia accorto. Tutto si spiega. Il pennarello cade ancora. Un’altra volta. E un’altra volta ancora. Diventa una gag.
“Ricky, hai le dita di burro…?”
“No! Sto misurando i vostri riflessi!”
Tre segnali. Nessun dubbio. Tre campanelli d’allarme inequivocabili. Nessun collegamento. Poche domande. Risposte rassicuranti. Tanto rassicuranti che non ne parlo con nessuno. Non che abbia scelto di tacere. Non c’è motivo di raccontare.
Intanto, quella che verrà chiamata CIDP, lavorava indisturbata. Lentamente, inesorabilmente il mio sistema immunitario mangiava la mielina del mio sistema nervoso periferico. Dal dito indice della mano destra. È partito tutto da lì.
(luglio-novembre 1987, circa)

L’INIZIO (EP.2) … ci può essere qualcosa di serio

“Non è il cuore e non è la circolazione” afferma con sicurezza il dottor Greblo togliendosi lo stetoscopio. La pressione è regolare. Il cuore non da segnali preoccupanti.
“Quindi…” interloquisco tranquillo.
“Quindi dobbiamo escludere le ipotesi più gravi, tumore al cervello e sclerosi multipla” mi spiega il dottor Greblo. Mi è sempre piaciuto il dottor Greblo. Sempre diretto. Tranquillo e diretto.
“Come? ” domando con un velo di preoccupazione che scalfisce la superficie della mia tranquillità.
“Con una risonanza magnetica alla testa” conclude il dottor Greblo.
Non posso stare a pensarci troppo. Devo correre al San Raffaele a prenotare la risonanza magnetica. E, come avevo deciso il giorno prima, tornando da Marilleva dal fine settimana sciistico, coinvolgerò mamma e papà con l’esito dell’esame in mano. Non voglio che si preoccupino per niente. Arrivato al San Raffaele il mio piano ha dovuto subire una necessaria variazione. Risonanza magnetica con la mutua: nove mesi di attesa. “Faccio in tempo a morire”, penso sorridendo cinicamente. Risonanza magnetica a pagamento: 20-30 giorni per la modica cifra di ottocentomila lire. Sul conto corrente ne ho la metà. Devo coinvolgere mamma e papà subito.
“Mi date ottocentomila lire per fare una risonanza magnetica alla testa? Devo escludere tumore al cervello e sclerosi multipla”.
“Non fare il pirla” dice papà. Distrattamente quasi a voler negare ciò che aveva appena sentito.
“Cosaaaa!?” squilla la mamma sbarrando gli occhi.
Non avevo “studiato” un modo di dirlo. Tornando a casa mi ero concentrato sulle mie prospettive. E avevo concluso che prima di preoccuparmi di qualsiasi cosa era meglio aspettare il referto della risonanza. Il fatto è che entrando in casa me li ero trovati di fronte entrambi. E l’avevo detto loro così come era. Semplicemente. Avevo passato l’ora successiva a raccontare del fine settimana, del polso che cedeva, della lotta con Federica, della visita del dottor Greblo.
15 giorni dopo ero sdraiato in un tubo della risonanza magnetica all’ospedale San Raffaele. 10 giorni dopo avevo in mano l’esito: negativo. Niente tumore al cervello. Niente sclerosi multipla. Nulla.
“Nella testa non c’è niente” informo gli amici.
“Niente? Che tu non avessi il cervello noi lo sapevamo già!!” mi rispondono sarcasticamente. Il nostro modo di volerci bene.
Nulla. Non c’è proprio niente. E ora? Cosa faccio? La debolezza persiste. Ok. Si affronta come un problema. Non come una malattia. Bisogna capire qual è il problema. Trovare le soluzioni. Scegliere la più adatta. Applicarla. Semplicemente.
(Marzo 1987, circa)

L’INIZIO (EP. 1)… Qualcosa non va

“Cazzo! Ma quanto è forte questa qui!?”
Marilleva 1400. Condominio Lores  1. Sabato pomeriggio inoltrato. Siamo nel salotto di casa mia e stiamo recuperando  dopo otto ore di sci intensissimo. Marco, Andrea, Gloria, Carlotta, Federica e io (tutti amici) siamo in montagna per un fine settimana che ci scarichi dallo “stress” universitario. Federica mi sta dando dei problemi. Stiamo lottando sul pavimento e non riesco a schienarla. Lei 1.60 circa, io 1.87. Lei 45 kg circa, io 85 kg. “Come cazzo è possibile!? Non è assolutamente possibile!”. Basta pensare, meglio agire.
Adesso Federica è pancia a terra. Bene. Le appoggio una mano tra le scapole e la schiaccio verso terra mentre ruoto passando dal suo lato sinistro a quello destro. Mi accovaccio perpendicolare a lei controllandola: ora la sto premendo a terra con il busto. Con la mano sinistra passo sotto la sua gamba destra e le afferro il pantalone della gamba sinistra all’altezza del ginocchio. Contemporaneamente, passo la mano destra sotto il collo e prendo il suo gomito sinistro. Spingo il busto in avanti. Tiro indietro le braccia. Federica ruota sulla schiena, rovesciata. Kuzure kesa gatame, e non si muove più. Schienata! “Ma tu guarda se per vincere ho dovuto far ricorso a tutto il mio talento di quando facevo judo agonistico (nel combattimento a terra ero quasi imbattibile)”.
Ma questo era solo il secondo segnale di quel sabato. Per tutto il giorno, nelle code agli impianti di risalita, non riuscivo a tenere gli sci in piedi, verticalmente. Il polso mi cedeva. Non mi era mai successa una cosa simile. Figuriamoci due “cedimenti” del mio fisico super allenato nello stesso giorno.
Domenica. Il polso continua a cedere.
Forse è meglio andare dal dottor Greblo e sentire cosa mi dice. Meglio tenere fuori mamma e papà fino a quando non so che cosa sta succedendo.
(Marzo 1987, circa)
Kuzure Kesa Gatame