FABRI, IL FREDDO, IL PARKINSON E UN’AMICIZIA PIÙ GRANDE DI QUELLA CHE SEMBRA.

Capita di dover uscire controvoglia. Dopo cena. Contro pioggia e vento freddo. Controvoglia per il tempo infame. A favore dell’uscita: raggiungere Nelly alla presentazione di un prodotto naturale antiinfiammatorio, immunomodulante e virtù varie.

Fabrizio è passato a prendermi. Andremo insieme. Il prodotto interessa anche a lui.

Ci siamo conosciuti in Grecia. A Paros. Quasi vent’anni fa. Un’amicizia improbabile. Da lontano sembriamo così diversi. Così uguali, conosciuti da vicino. Ci siamo legati con il passare del tempo. Con fili sottili all’apparenza. Che hanno tessuto una trama inestricabile. Fabri è un amico discreto. Ma non manca mai. Quando nel letto dell’unità coronarica ho aperto gli occhi Fabri era li. Seduto sulla sedia. Mi ha salutato con il suo sorriso coinvolgente incorniciato dai capelli sempre lunghi. Tranquillo. Allegro. Positivo. E affettuoso. Come il suo sorriso. È Fabri. C’è. C’è sempre.

Parcheggiamo e ci dirigiamo all’indirizzo. L’acqua ci accompagna. Ci accompagna anche il vento freddo. Arriviamo al 28/A. Controlliamo l’SMS di Nelly. C’è scritto 28. Ma non lo troviamo. Fabri scatta verso l’incrocio per controllare che sia dietro l’angolo del palazzo. Nulla. Torna indietro. Citofona al 28/A. Tanto per provare. Nulla. Tre tentativi. Tutti senza risposta.

“Mi fumo una sigaretta. Tanto mancano cinque minuti…”.

Seduto sulla carrozzina guardo Fabri. L’occhiata è di intesa. Arrivando in macchina abbiamo chiacchierato del più e del meno. Senza che ce ne fosse bisogno. L’Inter. Il lavoro. La mia salute. Ogni tanto qualche lunga pausa.

Mentre aspettiamo ascoltiamo i rumori della città smorzati dalla pioggia leggera. Incrocio le braccia. Ogni tanto rompiamo il silenzio con qualche battuta.

“Roby e Isabella?”

“Bene”. Il sorriso di Fabri è una dichiarazione d’amore verso i suoi figli.

Pausa. Lunga.

“Hai freddo?”, domanda Fabri laconico. Quasi disinteressato. Più per incrinare il silenzio.

Contemporaneamente le mie braccia subiscono un scarica di tremori.

“No… è il Parkinson”, rispondo altrettanto laconico. Quasi disinteressato. Più per il dovere di dare una risposta.

Fabri tira una boccata di fumo. Si guarda la punta delle scarpe vagamente perplesso.

“Ma io volevo solo sapere se hai freddo?”. Mentre nota le mie braccia in preda a una nuova scarica vibrazioni.

“Ah,… non ho freddo…”. Io continuo per la mia strada.

Fabri mi abbraccia. Delicatamente.

Pausa. Lunga.

Fabri accenna a ridere. Più che altro un sussulto. Pausa.

Ripenso allo scambio. Sussulto anch’io.

“E la gara per il bilancio di sostenibilità del birrificio?”. La domanda rimane sospesa per un momento.

“Vinta “.

Fabri tira un boccata di nicotina mentre butta lo sguardo distrattamente verso la piazzola.

Sorride. E trattiene una risata. Pausa.

Ciondolo con la carrozzina. Ho lasciato le pedane in macchina come mi capita sempre più spesso. Mi muovo spingendo con le gambe. Una parvenza di autonomia.

Trattengo una risata. Pausa.

Non si può ridere per una simile idiozia. E soffoco una risata con sempre maggiore fatica.

Fabri si incammina verso l’angolo ridendo sommessamente.

“Cosa ridi?” gli intimo per niente convinto. Ridendo.

Continuando ad allontanarsi, Fabri mi lancia un’occhiata con la coda dell’occhio. Il sorriso vagamente furbo. E si abbandona. Contagiandomi.

Le risate superano il rumore della pioggia e del traffico con la forza di un’esplosione. I nostri sguardi sono il detonatore. Quando si incrociano scoppiamo. Smettiamo quando si allontanano. E continuiamo così. Per tutta la serata, o quasi.

Dissacrare le mie malattie è un dovere. Dissacrarle con un amico è da morire dal ridere.

(Febbraio, 2014)

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