Prima leggi:LA PREPARAZIONE AL TRAPIANTO: IL CATETERE VENOSO CENTRALE
Calzo il soprascarpe sinistro. Fatto. Mamma, Florenzo, il badante filippino di turno, e io siamo pronti. Perfettamente isolati dalla calottina, dalla mascherina, dal pastrano e dai soprascarpe ci prepariamo a entrare. Di fronte a noi la porta reca un insegna di quattro vocali: U. T. M. O. (Unità di trapianto di midollo osseo).
È il 15 dicembre quando varco la soglia del reparto che ho inseguito per più di un anno. Ora che sto entrando le aspettative sono alte. Altissime. Nei mesi prima del ricovero il mio entusiasmo continua a crescere. Da più mi invitano a non passare dalle aspettative all’illusione. Il Prof., Giuseppe, gli amici, mamma. Mi limito ad ascoltare.
La porta dell’UTMO si chiude dietro di me. La confusione del reparto di ematologia rimane chiusa fuori. Dentro l’UTMO c’è tanto silenzio che si sente la vibrazione della speranza. Mi presento agli infermieri che mi registrano.
Entro nella stanza singola. È più essenziale delle solite. Il letto. Una poltrona in simil pelle bianca. Una cyclette. Agganciata sul muro di fronte al letto, nell’angolo in alto a destra, la classica televisione dell’Ospedale San Raffaele. Se tutto funziona come dovrebbe, tra un mese sarò a casa. Nei prossimi 30 giorni le quattro mura e i quattro oggetti saranno il mio universo. I testimoni di una trasformazione straordinaria. Sono l’unico a crederci.
Sottoscrivo le regole del reparto. Massimo due visite al giorno, non contemporanee. Consegnare qualsiasi oggetto agli infermieri. Saranno loro a decidere se consegnarmelo dopo averlo disinfettato. L’unica trasgressione è la scatola di Mak 5. Pastiglie ayurvediche antiossidanti per alleggerire gli effetti collaterali della chemioterapia. Nascondo la scatola in fondo al cassetto del comodino.
Florenzo ripone i libri, il ricambio, i biscotti Ringo nell’armadio. Io mi guardo in giro. La mamma non mi toglie gli occhi di dosso. Rimaniamo soli. Vorrebbe abbracciarmi. È pronta a violare il regolamento. Tossisce. Quella maledetta pleurite non la abbandona.
“Ci vediamo domani”. La voce tristissima soffocata dalla mascherina. Gli occhi più eloquenti di qualsiasi parola.
Rimango solo. Come l’attimo prima dell’inizio dei combattimenti di judo. La sensazione è così reale e familiare che per un istante mi sembra di sentire l’odore del sudore, la puzza dei judoji intrisi del sudore accumulato da settimane. L’attimo è lungo quattro giorni. Quattro giorni di esami. L’ultimo controllo prima di partire.
Il 19 dicembre, una gelida mattina saluta l’entrata in camera degli anestesisti. Installano il catetere venoso centrale. Escono. Entra un infermiere con una sacca di farmaco. È la chemioterapia. Si comincia. Ho solo certezze. Migliorerò come non sono mai migliorato. L’unica incognita: il tetto del miglioramento. Termini di paragone: nessuno. Sono la terza persona al mondo con la CIDP che si sottopone a un trapianto di midollo autologo di cellule staminali mesenchimali.
(Dicembre 1999)