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LA FINE DELL’EPOPEA DEL SIGNOR CORSARO

Prima leggi: Il tentativo di evasione del signor Corsaro

“Non vedo nessuno”, sussurra il signor Corsaro.

È stata una notte tranquilla. Tranquilla più delle altre. Ho evocato “il Petrarca” solo una volta. E mi sono riaddormentato così velocemente da non fare in tempo a sentire i singhiozzi del mio compagno di camera.

La mattina era stata uguale a tutte le altre. Sveglia, colazione, igiene, immunoglobuline endovena. Il libro per farmi compagnia nelle ore inchiodato al letto dall’ago nel braccio, la visita dei neurologi.

In piedi, ai piedi del suo letto, i neurologi sprofondano nella cartella clinica del signor Corsaro. Ogni tanto si scambiano cenni d’intesa. Ogni tanto si confrontano nella loro lingua ermetica. Consultano le analisi e gli esami, la pila di documenti che ha gonfiato la cartellina di cartone azzurro in poco più di dieci giorni. Poi, solennemente, annunciano: “bene signor Corsaro, oggi la dimettiamo, avvisiamo noi casa. E… non esca dalla camera”. Mentre si precipitano verso la porta per affrontare la prossima cartella clinica, un neurologo torna indietro. Mi guarda come aspettando che mi accorga di lui.

“Si…?”. Alzo gli occhi dal libro. Lo guardo per fargli capire che sono attento. Il neurologo esita. La mia espressione perplessa deve averlo bloccato.

“Si, …”, ripeto per incoraggiarlo.

“Scusi, signor Taverna, potrebbe pensarci lei…”. Le parole scivolano fuori dalla bocca. Cercano di essere discrete mentre indica il signor Corsaro con un cenno della testa.

Messaggio ricevuto.

“Signor Corsaro”.

“Ai suoi ordini”.

“Ho ricevuto un ordine di servizio – annuncio con un marcato tono prossimo all’emergenza – questa mattina nessuno può uscire dalla stanza”.

“Come mai? Se posso chiedere…”.

Devo trovare immediatamente un motivo che sia plausibile. Almeno per lui.

“Questa mattina un pericoloso criminale, associato al clan dei corleonesi della mafia siciliana, è stato ricoverato in questo ospedale. È scortato dai servizi segreti. L’ordine è di non uscire per permettere agli agenti speciali di controllare gli accessi al reparto senza interferenze”.

Il signor Corsaro annuisce. E rimane ai piedi del mio letto. Continua a fissarmi. Ah, mi stavo dimenticando:

“Può andare”.

Invece di sedersi sul letto, il signor Corsaro si avvia verso la porta della camera. Mi siedo sul letto per osservarlo.

Apre la porta.

Sto per richiamarlo all’ordine in modo perentorio quando il signor Corsaro si ferma, guarda attentamente il pavimento e allinea attentamente le punte delle pantofole al filo della porta. Si sporge leggermente in avanti. Gira la testa leggermente verso sinistra. Fa un leggero passo indietro. Allinea nuovamente le punte delle pantofole al filo della porta, si sporge leggermente in avanti e gira la testa leggermente verso destra. Chiudi la porta e sospira.

“Non vedo nessun agente”, mi dice facendomi capire palesemente di sentirsi preso in giro.

“Se lei li vedesse non sarebbero agenti dei servizi segreti”. Rispondo senza alzare gli occhi dal libro.

“In effetti…”, ammette il signor Corsaro.

Il signor Corsaro riapre la porta, riallinea le punte delle pantofole al filo della porta e si sporge leggermente in avanti. Passerà tutta la mattina a girare la testa leggermente verso sinistra. Poi, leggermente verso destra.

Appena dopo il pranzo il signor Corsaro lascia il reparto di neurologia del DIMER del San Raffaele. Uscendo, non mi saluta. Me l’aspettavo, un po’. Ma una parte di me, il capo di stato maggiore dell’Ospedale militare, per un attimo si è sentita offesa. E per un attimo ho pensato che tutto fosse stato frutto della mia immaginazione.

“Contento Ricky?… Si ritorna alla tranquillità!”. La voce di Raffaella, l’infermiera, mi raggiunge dal corridoio. È successo veramente.

1995

dimer

LA PREPARAZIONE AL TRAPIANTO: IL CATETERE VENOSO CENTRALE

“Scusi signor Taverna, devo rifarle la lastra. Non si riesce a vedere se è ben alloggiato”, mi annuncia il tecnico spingendo la macchina per i raggi X nella stanza. È la seconda volta in mezz’ora.
Inclino lo schienale del letto. Il tecnico posiziona la lastra tra la mia schiena e il materasso. Alzo la maglietta. Il tecnico indossa il grembiule protettivo di piombo. Preme un tasto sulla consolle di comando. Il tubo radiogeno si illumina e proietta una croce sul mio torace. Scatta. Ritira la lastra.
“Buongiorno”.
Finalmente. Comincia il percorso che mi porterà al trapianto di cellule staminali. Il sole splende alto e limpido. Il calore invade la stanza al quarto piano del DIMER, reparto di ematologia. Il sole, il calore. Segnali di buon auspicio. Sono teso e carico allo stesso tempo. Riconosco la sensazione. Risale, come una reminiscenza, da un passato che stava sbiadendo. L’emozione che si prendeva possesso di me nei tornei di judo. Prima del primo combattimento. Vuoto nello stomaco. Formicolio sotto la cute. L’ansia di voler combattere subito per sgombrare la mente dall’incertezza: “sarò all’altezza della sfida anche questa volta?” Quell’emozione mi rendeva più vigile. I sensi più acuti. Come allora capisco: sono pronto alla sfida. Anche se è diversa, sono pronto. La posta è alta. In palio c’è una vita migliore. Al mio fianco, spettatore interessato che assiste passivamente, la morte. Il controllo ce l’ho io. Per adesso.
Lo scopo del ricovero è la mobilizzazione delle cellule staminali.Devo produrne in quantità e qualità sufficiente per il trapianto. Mi verrà somministrata della chemio endovena attraverso un accesso venoso nella succlavia, sotto la clavicola. Una vena robusta tanto da sopportare alte dosi di chemioterapico. Succlavia che ospiterà un catetere lungo circa 20 cm.
Gli anestesisti sono stati efficienti. In un quarto d’ora hanno posizionato il catetere. Poche chiacchiere, molta azione. Perfettamente coordinati, i tre medici si sono materializzati senza che me ne accorgessi. Mentre il capo anestesista mi spiega la procedura, un collega sistema una sedia sotto il letto dalla parte dei piedi per mandare il sangue dalle gambe al tronco. Intanto il terzo medico mi depila il petto sinistro. Due punture di lidocaina per anestetizzare la zona sotto la clavicola. Una piccola pressione. È il bisturi che si apre la strada fino alla succlavia. Un movimento fluido sopra la spalla sinistra. Deve essere il catetere che entra in sede. Due punti di sutura. Rapida medicazione. E i tre anestesisti svaniscono. Sono pronto per la chemioterapia.
Il rumore di ruote schiacciate da qualcosa di pesante anticipa l’entrata dell’apparecchio portatile per i raggi X. Il tecnico scatta la lastra sul petto, un classico di ogni primo giorno di ricovero, e mi saluta trascinandosi dietro il pesante aggeggio.
“Buongiorno a lei”. Rispondo al saluto del tecnico, mentre esce dopo la seconda lastra. E mentre si allontana rumorosamente rimango sdraiato a provare i movimenti della spalla sinistra. L’effetto dell’anestetico sta passando e sta liberando il pettorale dal torpore.
Mentre ascolto il risveglio del muscolo una domanda prende possesso dei miei pensieri: “perché due lastre?”.
“Due lastre. Perché?”. In un attimo da domanda diventa una fissazione. “Perché? Cosa deve essere ben alloggiato? Ovviamente il catetere. Ma è un tubo in un altro tubo. Non ha senso”. Apro Il Signore degli Anelli in cerca di un appiglio che mi distolga. Ma la fissazione diventa quasi un’ossessione: “perché due lastre? Cazzo!”. Mi siedo sul letto. “Perché?”. Poi, un’improvvisa botta di consapevolezza. “Il catetere venoso centrale lungo una spanna circa… deve essere ben alloggiato… non è possibile…”.
“Scusa – domando all’infermiera che è appena entrata in camera – non è che il catetere venoso centrale entra nel cuore?”.
“Certamente… “, mi risponde serafica mentre continua a somministrare la terapia al mio compagno di stanza.
“Oh cazzo, mi hanno messo un tubo nel cuore”. E mentre lo penso, la stanza comincia a girare. Faccio due respiri profondi. La stanza si ferma. Tutto sotto controllo.
(Aprile, 1999)
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TRAPIANTO AUTOLOGO DI CELLULE STAMINALI EMATOPOIETICHE: IL MIO TRAPIANTO

Farmi produrre cellule staminali. Prelevarle. E reinfonderle dopo un periodo di crioconservazione in un “bidone di azoto liquido”.

In passato le cellule staminali venivano prelevate direttamente dalle ossa del bacino. Espiantate in anestesia generale. Oggi, grazie a una tecnica chiamata Leucaferesi, le cellule staminali sono raccolte dal sangue periferico. Prima della Leucaferesi il paziente viene sottoposto ad un dosaggio di chemioterapia. Al chemioterapico segue la somministrazione sotto cute di un farmaco (Lenograstim) che stimola il midollo osseo a produrre cellule staminali del sangue. Dal midollo osseo le cellule staminali passano al sangue. È il momento della Leucaferesi, il prelievo.

La leucaferesi si esegue applicando un ago nella vena di un braccio del paziente. Il sangue viene aspirato dal “separatore cellulare”, una macchina che divide le cellule staminali dalle rimanenti componenti del sangue sfruttando la forza centrifuga. Le cellule staminali vengono raccolte in una sacca sterile. La parte scartata viene reinfusa. Si raccoglie così una grande quantità di cellule staminali, sufficiente per eseguire uno o più trapianti. Rispetto alle cellule staminali prelevate con l’espianto, quelle ottenute mediante leucaferesi permettono una ricostituzione più rapida del midollo osseo.
La procedura è semplice. Lineare. Quasi banale. Nel mio caso c’è la classica variante. Dopo più di dieci anni di CIDP, di terapia endovenosa, le vene delle braccia sono diventate piccole e fragili. Somministrare il chemioterapico endovena vuol dire bruciarle definitivamente.
Imparo così dell’esistenza dell’accesso venoso centrale. Entrare nel sistema circolatorio con un catetere attraverso una vena centrale: la succlavia (sotto la clavicola), la giugulare o la femorale. “Catetere venoso centrale”. Così si chiama il “tubicino” che viene inserito. Un tubicino lungo circa 20 cm con un diametro di alcuni millimetri. Viene posizionato in anestesia locale e fissato con due punti di sutura. Il catetere venoso centrale viene utilizzato sia per l’infusione della chemioterapia e dei vari farmaci previsti dal ricovero che per i prelievi. E la Leucaferesi. Ovviamente.
Per una volta le braccia sono salve. E sono salvi gli infermieri. Il catetere venoso centrale è posizionato dagli anestesisti.
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ELETTROMIOGRAFIA: L’ESAME DEI "FASCISTI".

Prima leggi: POLINEUROPATIA DEMIELINIZZANTE INFIAMMATORIA CRONICA (CIDP): la mia malattia
Prima leggi: IL GRANDE IVAN (EP.1): il colloquio

L’Elettromiografia è un esame strumentale che studia il sistema nervoso periferico costituito da nervi e muscoli. Misura l’attività elettrica dei muscoli e la conduzione elettrica dei nervi. Con la CIDP non si scampa all’elettromiografia perché è l’esame che misura le performance di gambe e braccia. Il loro peggioramento, spesso. Il loro miglioramento, qualche volta.
Protagonista dell’esame: l’elettricità. Per misurare la conduzione dei nervi il neurologo identifica il tronco nervoso, applica un elettrodo a un’estremità, per esempio un dito, e un elettrodo all’altra estremità, per esempio il gomito. Poi, fa partire una scossa. La macchina a cui sono collegati gli elettrodi misura il tempo che l’impulso elettrico impiega a percorrere la distanza. Il neurologo misura la distanza tra gli elettrodi, il gioco è fatto. Per misurare l’attività elettrica dei muscoli il neurologo inserisce un ago, con un elettrodo all’estremità, nel muscolo. Poi chiede al paziente di contrarre il muscolo. E così registra l’attività elettrica.
Arrivo nell’ambulatorio. Mi spoglio e rimango in boxer. La stanza fredda e spoglia. Un lettino. Una sedia. Un attaccapanni. Una scrivania che sembra li per caso. L’elettromiografo. Sul muro un poster del corpo umano con il sistema nervoso in evidenza.
Mi accomodo sul lettino con il lato destro verso l’elettromiografo. Braccio destro e gamba destra, il lato che, dall’esordio della CIDP è sempre stato più debole. Da un certo punto di vista è una fortuna. Non esamineranno il lato sinistro. Elettrodo intorno a un dito. Elettrodo appoggiato sotto il gomito. Scossa. Il braccio destro sussulta. Il monitor disegna una leggera curva. Insufficiente per la valutazione. Aumentano la potenza. Scossa. Il braccio destro sussulta di più. E questa volta fa male. Curva insufficiente. Aumentano la potenza. Scossa. Il braccio salta.

“Tenga fermo il braccio”. Il tono del neurologo è quasi distratto, meccanico. Non nasconde un rimprovero.
“Ci provi lei con le sberle che mi sta tirando”. Rispondo con il tono di chi si rivolge a un idiota.
Scossa. Il braccio salta. La curva è sufficiente. Il dolore forte.
Altro tronco nervoso. Altro giro.

Un colpo secco. E l’ago è nella coscia destra.

“Spinga giù il ginocchio”, comanda il neurologo.
Eseguo. La coscia si contrae. L’ago mi da fastidio. Un fastidio tremendo. E il neurologo muove l’ago per meglio intercettare l’attività elettrica. Il fastidio diventa dolore.

L’esame è finito. Il neurologo e l’assistente escono. Ivan e io rimaniamo soli.

“Sono sicuramente fascisti”, mi dice di Ivan mentre mi aiuta a vestirmi.
“Perché?”.
“Perché per scegliere di fare un esame come questo devi essere per forza fascista”. Ivan è categorico. “E poi hai visto che facce? Nasi appuntiti, magre, guance scavate. Fascisti. E poi, non mi piace chi ti fa male”.

C’è stato un periodo in cui facevo due elettromiografie all’anno.

LA PUNTURA LOMBARE

Della CIDP si parlerà tra po’ di anni. Adesso è un’infiammazione al sistema nervoso. L’origine è ignota. Bisogna indagare. La puntura lombare è l’esame per escludere o confermare l’origine virale. Con la puntura lombare si preleva il liquor spinale che nell’eventualità della presenza di un virus ne tiene traccia.
Della puntura lombare mi aveva raccontato Maurizia. “Un esame dolorosissimo. Un mal di testa incommensurabile. Per almeno due giorni”, mi aveva spiegato raccontando l’esperienza di un amico. Maurizia tendeva a rendere i racconti ipertrofici. Ma la premessa era oggettivamente inquietante. Il liquor si preleva inserendo un ago piuttosto grosso tra due vertebre lombari fino al canale midollare.
Sono seduto sulla barella dell’ambulatorio del reparto di neurologia al secondo piano del Besta. I piedi appoggiati a un trespolo. Le gambe rannicchiate. Abbraccio un cuscino. Il tutto espone nitidamente le vertebre lombari. Sono pronto. Un po’ preoccupato. Ma le emozioni sono sotto controllo. Do l’ok.
Sento il cotone imbevuto di disinfettante sui lombi. Freddo. Le gocce che scorrono verso le natiche. Sento lo spray anestetizzante. Gelato. Sento “un dito” premere tra le vertebre lombari. Deve essere l’ago che comincia a farsi strada. Non sento più nulla. L’ansia sale leggermente. Per precauzione inspiro ed espiro. Lungo e lento. “Incomincio ad aspirare”, mi informa il medico. Sento uno strappetto. Leggero. Strano. Sconosciuto. Uno strappetto all’interno della colonna vertebrale. Sotto il livello del lago. Il mal di testa incommensurabile. “Deve incominciare così”, penso. E l’ansia esplode. La testa mi gira.

“Sto per svenire”, comunico all’equipe.
“Cosa?” Il medico è sorpreso.
Alzo la voce: “sto per svenire”.
Due infermieri si piazzano ai miei lati. Ognuno mi tiene per una spalla. Un’infermiera mi si piazza davanti.
“Che lavoro fai?”. È il medico.
“Insegno metodologia di studio: tecniche di memorizzazione e lettura rapida”, rispondo mentre la testa continua a girare.
“Lettura rapida? – ribatte il medico – balle! Non funziona!”.
“Come non funziona?! Come fa a sapere?!”. La polemica mi da una botta di adrenalina.
Mi riprendo. Dura poco. La testa incomincia a vorticare.
“Cazzo… sto per svenire”.
Gli infermieri guardano il medico si fanno un cenno d’intesa. Delicatamente, mi coricano sul lato destro. Mentre l’ago è ancora tra le vertebre.

Terminata la puntura seguo pedissequamente le istruzioni. Un’ora sdraiato sulla pancia. Ventiquattro ore sdraiato senza cuscino. Il secondo giorno ancora sdraiato. Bere tantissimo. Del mal di testa incommensurabile neanche un accenno. L’analisi del liquor è negativa. Nessun virus.
Un anno dopo. Secondo ricovero. Seconda puntura lombare.

“Perché?”. L’idea non mi piace.
“Per verifica”. Mi spiegano.
Cedo.

Sono seduto sulla barella. Sto per prendere posizione quando il vice primario entra nell’ambulatorio.

“A proposito, l’ultima volta stavo per svenire”.
“Ma come? Un ragazzone come te”, interviene il vice primario, leggermente strafottente.
“Con tutte quelle che ho fatto io…”, continua il vice primario.
“Quante ne hanno fatte a lei?”. La mia domanda è secca. Improvvisa.
“Nessuna”, risponde tranquillamente il vice primario.
“Appunto. Allora cosa parla?”. Lo sto sfidando apertamente.
Il vice primario ordina che mi facciano una puntura per isolare il sistema nervoso simpatico. Quello dal quale dipendono le emozioni.

È andato tutto per il meglio. Non sono svenuto. Ho seguito la procedura. Nessun mal di testa. Il liquor negativo anche questa volta. Basta con la puntura lombare. Non la voglio più fare.

STORIE DEL DIMER (Ep. 1) … il Signor Corsaro (parte 1)

“Ma io la riconosco – esclama l’anziano signore entrando in camera – lei è il Capo di Stato Maggiore di questo ospedale militare”.
“Si”, rispondo annoiato, non sapendo ancora che quel “sì”, buttato lì distrattamente e con un po’ di strafottenza, sarebbe stato la mia salvezza.
È il secondo ricovero al DIMER.  È un bellissimo pomeriggio di giugno. Dalla finestra vedo nitidamente il cielo. È di un azzurro così intenso da sembrare artificiale. La brezza spinge con  la cima dell’albero vicino al recinto nella visuale con la regolarità di un metronomo.  Potrei essere in campagna. Invece il traffico di via Olgettina che scorre a pochi metri dalla mia finestra a pian terreno e l’ago che ho nel braccio sinistro mi ricordano dove sono.
“Si”, rispondo all’anziano signore e mi volto verso la mamma che è venuta a trovarmi. Sono a letto da sei ore con la flebo di immunoglobuline che possono provocare sbalzi di pressione e nausea. Per cui la somministrazione è lenta, molto lenta.
Il signor Corsaro, l’anziano signore, è il mio nuovo compagno di camera. Si cambia. Si sdraia nel letto  a fissare il soffitto. Si addormenta. La moglie e il figlio ci raccontano che è stato ricoverato per degli accertamenti. Forse Alzheimer. Forse chissà. Escono chiedendo di dire al signor Corsaro che ritornano dopo mezz’ora.
“Dove sono mia moglie e mio figlio?”, mi chiede il signor Corsaro svegliandosi.
“Tornano tra 30 minuti”, rispondo.
Il signor Corsaro si riaddormenta. Continuo a chiacchierare con la mamma.
“Dove sono mia moglie e mio figlio?”, richiede il signor Corsaro svegliandosi nuovamente.
“Tornano tra 30 minuti”, rispondo.
“È quello che mi ha detto prima!”, ribatte il signor Corsaro. Le sue parole sono sferzanti, il tono del rimprovero.
“Certo – rispondo con durezza – ma i 30 minuti non sono ancora passati”. Forse ho esagerato.
“Mi scusi –  continua con sorprendente umiltà il signor Corsaro – e, Signore, perdoni la mia impertinenza”.
Questo ricovero sarà lungo e impegnativo. Il signor Corsaro era un dirigente di un’importante banca e, in gioventù, era stato ufficiale della cavalleria.
(giugno 1995, circa)

IL PROF. (Ep. 3)… il ricovero

“Si accomodi fuori, per cortesia”. Per cortesia è superflua. Il Prof. non chiede favori,ordina. Con cortesia, ma sono ordini. Il mio compagno di camera esegue diligentemente. Fende la folla di medici, assistenti, studenti che sono entrati in camera dietro al Prof. esce e chiude la porta. Siamo rimasti soli. Soli. Insomma. Ai piedi del mio letto ci saranno 15 persone. Mi siedo con le gambe incrociate.
Il Prof. prende la parola: “questo paziente è diverso, va trattato in modo  differente”. E spiega che mi va raccontato tutto, nel bene e nel male. Che tutto va raccontato a me per primo, senza  intermediari. Comunica la terapia: immunoglobuline endovena. Niente cortisone. La camera è in un silenzio glaciale ma vivo. L’espressione della massima concentrazione. Le parole del Prof.  portano tutto il peso del suo carisma. Sono dirette,  sicure.  Sono Vangelo. Io sono soddisfatto. Contento. La certezza di aver fatto la scelta giusta: tornare in ospedale dopo tre anni di medicina alternativa con il medico giusto.
“Voglio che uno di voi lo segua direttamente e riferisca a me”,comanda il Prof. L’esitazione è lunga. In qualcuno si trasforma in timore. Dalla seconda si fa avanti un giovane dottore.  I lineamenti gentili, la voce delicata,  gli occhi profondi. “Io”. Giuseppe  si offre volontario con decisione. Un modo inaspettato che contrasta con la sua figura. Alcuni colleghi che lo guardano come se stesse per compiere un atto eroico. Incomincio ad intravvedere un nuovo lato del Prof.: incute timore. Lo osservo mentre spiega che non verrò sottoposto a puntura lombare e la biopsia del nervo. Solo l’elettromiografia. E noto la deferenza dello staff. Io mi sento completamente a mio agio.
Il giorno dopo incomincia la terapia a base di immunoglobuline: 14 ore di flebo. Per fortuna c’è la televisione. E gli amici. Persone straordinarie che non mi lasciano mai solo. Il secondo giorno di terapia le dita  della mano destra si muovono nettamente meglio. La sensazione di pesantezza delle gambe passa. Funziona!  
Una settimana dopo l’incontro con il Prof., otto anni dopo essermi auto dimesso rientro al DIMER dall’ingresso principale. Ci tornerò per anni. Tanto che in alcuni momenti il reparto di neurologia mi è sembrato l’estensione di casa.
(marzo 1995, circa)

UN TRANQUILLO GIORNO IN OSPEDALE… tolleranza e solidarietà

Il mio compagno di camera è appena stato trasferito in un’altra stanza quando la caposala si avvicina al mio letto.
“Adesso sei più tranquillo?”. È più di una domanda. Mi sta rassicurando. La voce calda. Il sorriso amichevole.
“Perché? – rispondo spiazzato – dovrei essere agitato?”
È passato un giorno dall’incursione di Albert al bar dell’università. Un paio d’ore dopo ero nella mia camera al DIMER. La mamma mi aveva accompagnato. Entrare in ospedale per la prima volta, da ricoverato, mi provocava una sensazione strana. Nuova. L’ansia e l’inquietudine dell’ignoto. Ignoto il posto. Ignota l’esperienza. Ignoto il motivo che mi portava lì. I ricoveri si fanno di pomeriggio quando il reparto è più tranquillo, forse per rendere l’entrata meno difficile, sicuramente per non intralciare il giro dei medici nella mattina. La tranquillità è apparente. La sofferenza è tangibile negli occhi smarriti dei pazienti. Gli odori artificiali dei farmaci, dei disinfettanti mescolati al sudore sono il contorno. Avvicinandomi alla mia camera c’era anche la curiosità della novità. Il gusto della scoperta.
Ero entrato in camera distratto. Concentrato sulle sensazioni avevo appena notato il mio compagno di stanza: robusto. Mentre mi cambiavo, e la mamma sistemava l’armadio, sceglievo la curiosità. Tutto sommato stavo per vivere un’esperienza nuova. Tutta da scoprire. E soprattutto scoprire qual è il mio “problema”.
Dopo avere preso contatto con il nuovo ambiente ero saltato sul letto, alzato lo schienale e preso posizione. Mamma ai piedi del letto vicina alla porta. Mi ero voltato allungando la mano.
“Ciao! Io sono Riccardo… ma chiamami Ricky”, saluto scoprendo gli occhi del mio compagno dei prossimi giorni. Avrà 10 anni più di me.
“Ciao! Io sono Pietro… e sono la più grande puttana di Milano”, mi risponde con allegria.
“Nel senso di…”, continuo di rimando.
” Nel senso che di notte lavoro in viale Zara all’angolo con la circonvallazione – risponde Pietro senza esitare –   e ho l’aids conclamato”.
“Piacere”.
“Piacere mio”. E con la coda dell’occhio scorgo il sorriso increspato della mamma che, subito dopo, sguscia nel corridoio.
Abbiamo chiacchierato amabilmente tutta la sera. La notte di Pietro è stata agitatissima, preda dei peggiori incubi. All’alba è stato vittima di una crisi epilettica. Ma a dispetto dell’essere stato disturbato il ricovero ti insegna, fin dalla prima notte, a tollerare ed essere solidale. Lamentarsi è inutile. Anche di un anziano che russa come una ferrovia. La mattina, dopo colazione, Pietro è stato trasferito. Senza spiegazioni. Mi è dispiaciuto.
La caposala mi osserva confusa dalla mia tranquillità.
“Veramente ieri pomeriggio tua mamma è venuta di là da noi a dirci che suo figlio in camera con uno così non ci sta”, mi svela.
La solita mamma. Iperprotettiva. Oltre il limite del rispetto e della propria dignità. Essere genitore, essere madre, deve stravolgere qualsiasi scala di valori.
(Pietro è stato trasferito perché un paziente con l’aids non poteva condividere una camera d’ospedale con un paziente non affetto da AIDS. Era ancora il periodo in cui di AIDS si sapeva poco. Pietro e io abbiamo continuato a chiacchierare nel corridoio)
(giugno 1987)

COME HO AFFRONTATO LA CIDP (EP.1)… la vita sa prendere per il culo.

Penso a “Lui” e risento l’eco dei suoi passi che rimbomba nella notte nel corridoio del reparto di neurologia dell’istituto Neurologico Besta. Rivedo i suoi occhi. Buoni. Tristi. Spaventati. C’era qualcosa in lui che mi inquietava. Che mi teneva lontano. Aveva la mia età. Più o meno.
Era il mio secondo ricovero. Avevo preso coscienza del fatto che “il problema” era serio. O lo stava diventando. Rientrato dalle vacanze estive, quello in cui tutto sembrava essere tornato come prima, avevo ripreso a peggiorare. Piuttosto rapidamente. Lo zio di Diane, la mia fidanzata, era primario del reparto. Il letto era stato trovato quasi subito. E mi aveva garantito che non avrei perso tempo.
Il peggioramento mi aveva colto di sorpresa. E stava incominciando a tracciarmi un solco nell’anima. Era come ricevere una sberla secca. Improvvisa quanto inaspettata. La vita mi aveva afferrato per le caviglie e mi aveva riportato a terra con uno strattone violento. Violentissimo. Sogni, aspirazioni, progetti di vita erano messi improvvisamente in discussione. Tutti insieme. Tutti nello stesso istante. Il solco nell’anima diventava ogni giorno un po’ più profondo. Stavo perdendo i riferimenti dentro di me. La debolezza dei muscoli stava incrinando anche il carattere. Cominciavo a recriminare. A piangermi addosso. La notte mi svegliavo e venivo assalito da domande inutili: perché? Perché a me? Cosa ho fatto per meritarmi questo? Cosa sarà di me? Erano il sintomo della mia debolezza interiore. Alla luce del sole indossavo la divisa dell’uomo duro. Inscalfibile. Mi trovavo ad affrontare l’incertezza per la prima volta. E non sapevo come.
“Come mai sei qui?”. È la prima domanda che ci si fa tra ricoverati.
Fu lui a farmela per primo. Si era seduto alla mia destra nel corridoio del reparto. Non me ne ero accorto.
“Controlli” , risposi senza pensare. Più concentrato a trattenere sorpresa e un po’ di disagio. “Tu?” Gli chiesi a mia volta.
Mi raccontò la sua storia.
Fin da piccolo aveva avuto problemi alla vista. Problemi che aveva mitigato con delle lenti dello spessore dei “fondi di bottiglia”. Poi, improvvisamente, il miracolo. Un mese prima la sua vista aveva preso a migliorare drasticamente. In pochi giorni aveva smesso gli occhiali. Si era fatto visitare dal suo oculista che aveva confermato il miracolo. E gli aveva proposto di fare una risonanza magnetica per scoprire la fisiologia dell’evento. Più che altro per curiosità. La causa del  miglioramento: una massa tumorale maligna che stava crescendo dietro gli occhi migliorandone la “messa a fuoco”. L’indomani mattina sarebbe stato sottoposto ad una lobotomia. Non sapeva se si sarebbe risvegliato e, nel caso, come si sarebbe risvegliato.
Fece una lunga pausa.
“In un mese da miracolato a condannato”. Furono le sue ultime parole. Avevano il sapore di un epitaffio.
Ci chiamarono per la cena. Non lo vidi più. Ne venni mai a sapere com’era andato l’intervento.
Mi aveva salvato. “Lui” e il suo racconto erano stati più di una sberla. Erano stati un pugno nello stomaco. Assestato perfettamente. Perché il dolore di quel racconto mi svegliasse. Mi sentivo pieno di vergogna. Come potevo lamentarmi? Camminavo, guidavo, studiavo, uscivo la sera. Avevo degli amici straordinari e una fidanzata speciale. Vivevo. Come potevo lamentarmi di ciò che la vita mi stava riservando? Non mi stava prendendo in giro come stava facendo con lui. Era questo ad imbestialirmi per lui. Non il tumore. Ma il miracolo prima del tumore. Perché? Chi può meritare una simile presa per il culo? “Io, in confronto, sono fortunato”. Fu la mia conclusione.
Vivere. Per affrontare la CIDP dovevo vivere. Semplicemente. La malattia degenerativa una parte di me. Come l’altezza, il peso, il colore degli occhi, la personalità, da quel giorno io avevo anche la CIDP.
(Dicembre 1987)