Ospedale San Paolo. Pronto soccorso. Sala 2. Sono circondato da medici, assistenti, infermieri.
“Saturazione? “
“Pressione?”.
“Fatto l’rx torace?”
Sento tutto il repertorio di un episodio di E.R.- Medici in Prima Linea. Quasi tutto. Mi manca di sentire: “libera!” e “lo stiamo perdendo! lo stiamo perdendo!”. Meglio cancellare questo pensiero. Sorrido. Intanto mi stanno facendo un ecocardiogramma.
“Accesso venoso?”. La voce arriva dalla mia destra. È un medico che si è appena aggiunto alla squadra. È deciso. Autorevole. Occhi azzurri. Gelidi, ma con ampi sprazzi d’umanità.
“Non provate sulle braccia, non le troverete mai”, intervengo spiegando lo stato delle mie vene. “E se le trovate… si rompono”.
Si consultano: “femorale o giugulare?”.
Stanno optando per la giugulare. “Preferisco la femorale”. La frase spicca dalla bocca incontrollata.
“Perché?”, mi domanda il medico dagli occhi di ghiaccio, quasi preso in contropiede.
“Mi dà fastidio”. Il medico alza gli occhi al cielo e si dirige verso il inguine destro.
Porca miseria. Sto discutendo. Puntualizzando. Come Stepan. Ho un infarto e sto sottilizzando sull’accesso venoso. Non mi sopporto.
Una mano carica di pastiglie si avvicina alla bocca. “Un momento! – esclamo – fermi! Vi devo dire una cosa. Ho la CIDP da 25 anni e il Parkinson diagnosticato tre mesi fa. Sono sotto immunoglobuline sottocute e Mirapexin 52”. La mano ha un’esitazione. I medici si guardano, si scambiano un cenno di intesa. La mano mi copre la bocca. Ingurgito una quantità imprecisata di farmaci.
“Bene – annuncia il medico – corriamo in emodinamica, interveniamo”.
“Un momento, devo avvisare Nelly, mia moglie. È in Inghilterra”.
“Non abbiamo tempo – il medico è lapidario – abbiamo una coronaria ostruita al 95%. La chiamiamo dopo”.