COME HO AFFRONTATO LA CIDP (EP.1)… la vita sa prendere per il culo.

Penso a “Lui” e risento l’eco dei suoi passi che rimbomba nella notte nel corridoio del reparto di neurologia dell’istituto Neurologico Besta. Rivedo i suoi occhi. Buoni. Tristi. Spaventati. C’era qualcosa in lui che mi inquietava. Che mi teneva lontano. Aveva la mia età. Più o meno.
Era il mio secondo ricovero. Avevo preso coscienza del fatto che “il problema” era serio. O lo stava diventando. Rientrato dalle vacanze estive, quello in cui tutto sembrava essere tornato come prima, avevo ripreso a peggiorare. Piuttosto rapidamente. Lo zio di Diane, la mia fidanzata, era primario del reparto. Il letto era stato trovato quasi subito. E mi aveva garantito che non avrei perso tempo.
Il peggioramento mi aveva colto di sorpresa. E stava incominciando a tracciarmi un solco nell’anima. Era come ricevere una sberla secca. Improvvisa quanto inaspettata. La vita mi aveva afferrato per le caviglie e mi aveva riportato a terra con uno strattone violento. Violentissimo. Sogni, aspirazioni, progetti di vita erano messi improvvisamente in discussione. Tutti insieme. Tutti nello stesso istante. Il solco nell’anima diventava ogni giorno un po’ più profondo. Stavo perdendo i riferimenti dentro di me. La debolezza dei muscoli stava incrinando anche il carattere. Cominciavo a recriminare. A piangermi addosso. La notte mi svegliavo e venivo assalito da domande inutili: perché? Perché a me? Cosa ho fatto per meritarmi questo? Cosa sarà di me? Erano il sintomo della mia debolezza interiore. Alla luce del sole indossavo la divisa dell’uomo duro. Inscalfibile. Mi trovavo ad affrontare l’incertezza per la prima volta. E non sapevo come.
“Come mai sei qui?”. È la prima domanda che ci si fa tra ricoverati.
Fu lui a farmela per primo. Si era seduto alla mia destra nel corridoio del reparto. Non me ne ero accorto.
“Controlli” , risposi senza pensare. Più concentrato a trattenere sorpresa e un po’ di disagio. “Tu?” Gli chiesi a mia volta.
Mi raccontò la sua storia.
Fin da piccolo aveva avuto problemi alla vista. Problemi che aveva mitigato con delle lenti dello spessore dei “fondi di bottiglia”. Poi, improvvisamente, il miracolo. Un mese prima la sua vista aveva preso a migliorare drasticamente. In pochi giorni aveva smesso gli occhiali. Si era fatto visitare dal suo oculista che aveva confermato il miracolo. E gli aveva proposto di fare una risonanza magnetica per scoprire la fisiologia dell’evento. Più che altro per curiosità. La causa del  miglioramento: una massa tumorale maligna che stava crescendo dietro gli occhi migliorandone la “messa a fuoco”. L’indomani mattina sarebbe stato sottoposto ad una lobotomia. Non sapeva se si sarebbe risvegliato e, nel caso, come si sarebbe risvegliato.
Fece una lunga pausa.
“In un mese da miracolato a condannato”. Furono le sue ultime parole. Avevano il sapore di un epitaffio.
Ci chiamarono per la cena. Non lo vidi più. Ne venni mai a sapere com’era andato l’intervento.
Mi aveva salvato. “Lui” e il suo racconto erano stati più di una sberla. Erano stati un pugno nello stomaco. Assestato perfettamente. Perché il dolore di quel racconto mi svegliasse. Mi sentivo pieno di vergogna. Come potevo lamentarmi? Camminavo, guidavo, studiavo, uscivo la sera. Avevo degli amici straordinari e una fidanzata speciale. Vivevo. Come potevo lamentarmi di ciò che la vita mi stava riservando? Non mi stava prendendo in giro come stava facendo con lui. Era questo ad imbestialirmi per lui. Non il tumore. Ma il miracolo prima del tumore. Perché? Chi può meritare una simile presa per il culo? “Io, in confronto, sono fortunato”. Fu la mia conclusione.
Vivere. Per affrontare la CIDP dovevo vivere. Semplicemente. La malattia degenerativa una parte di me. Come l’altezza, il peso, il colore degli occhi, la personalità, da quel giorno io avevo anche la CIDP.
(Dicembre 1987)

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