Tendo ad essere tollerante. Tendo a contenere le incazzature. Al DIMER ci hanno messo poco ad accorgersene. La richiesta dell’infermiera quindi non mi sorprende.
“Buongiorno Signor Taverna”. È l’infermiera che non riesce a darmi del tu.
“Ciao”. Io insisto con il tu. Dietro l’infermiera fa capolino una ragazza con una divisa bianca e i profili blu. È una studentessa del corso di infermiera che sta facendo tirocinio in reparto.
“Signor Taverna, posso fare pratica con lei a infilare l’abocat?”
Accetto di buon grado. Tanto, sono a letto per la flebo di immunoglobuline e la sensibilità delle braccia è bassa. Le condizioni sono ideali. E ho il sospetto che l’infermiera abbia pensato la stessa cosa.
Espongo il braccio destro alla studentessa. Mi posiziona il laccio emostatico sotto il gomito. Esplora le vene sotto il polso. Sceglie il bersaglio. Appoggia l’ago guida. Spinge. Entra. È in vena. Lentamente estrae l’ago guida per lasciare la cannula in vena.
“Oh!” L’esclamazione della studentessa è contenuta. Come se avesse versato un po’ d’acqua.
La guardo. Mi restituisce un’occhiata imbarazzata.
“Penso che si sia rotta…”
“Cosa?”. Lo dico automaticamente conoscendo già la risposta.
“La cannula…”. La cannula si è rotta in vena.
La prossima volta che una studentessa entrerà in camera farò finta di dormire.
L’infermiera professionale prende il comando. In un quarto d’ora di discreta sofferenza estrae la cannula. La parte rotta attaccata per lo spessore di un cappello. La vena? Rotta anche lei.
(1993-1998)