L’orologio sul cruscotto segna “quasi mezzanotte”. La notte è uggiosa, malinconica come solo le notti milanesi di novembre sanno essere. Sto tornando a casa. Ho appena lasciato alle mie spalle la stazione Garibaldi. Mi avvicino al semaforo. Verde. Giallo. Rosso. Mi fermo ordinatamente sulla linea dello stop all’incrocio tra viale Sturzo e via Melchiorre Gioia. Mentre aspetto il verde abbandono le briglie della mente che si lascia trasportare dal susseguirsi dei pensieri. Sarà per la cena a base di stinco di maiale, sarà per l’ora, sarà per tutte e due ma mi sembra di sprofondare in una specie di rilassamento pre trance.
Il colpo di clacson mi riporta violentemente alla realtà. Lungo e insistito, da sfondarmi un timpano. Alzo gli occhi verso il semaforo. Verde. Nello specchietto retrovisore scorgo una Fiat Ritmo scura. Il conducente che mi urla di andare. Alzo la mano destra in segno di scuse. Inserisco la prima e imbocco viale Liberazione.
Mentre mi avvicino a via Galileo Galilei guardo distrattamente l’area ex Varesine alla mia destra mentre la memoria ripesca i ricordi di quando adolescente venivo quì al Luna Park. La Ritmo scura mi passa sulla destra. Mi affianca. E per la seconda volta in poche decine di metri mi riporta alla realtà: il conducente sta urlando come un ossesso. Sta urlando a me. La giugulare gonfia. Il viso rosso e deturpato dalla rabbia. La bocca che schizza saliva.
Non capisco. Cerco, nel limite del possibile, di interpretare il suo labiale. “Bastardo. Figlio di puttana. Fermati che ti faccio un culo così”. Continuo a non capire. Passo sul lato del Principe di Savoia. Attraverso piazza duca d’Aosta. Entro in viale Tunisia. Per fortuna tutti i semafori sono verdi. La Ritmo scura continua a seguirmi. Quando può mi affianca. E mi minaccia. Continuo a non capire. Faccio gesti condiscendenti. Affondo la testa nelle spalle come per chiedere cosa ho fatto. Il conducente si carica di nuova incazzatura.
Comincio a preoccuparmi delle conseguenze dell’inseguimento. Le conseguenze sono evidenti. L’uomo alla guida è grosso e massiccio. Se mi prende mi smonta. Un osso alla volta. All’incrocio con corso Buenos Aires giro a destra. Destinazione questura. Mi fermerò e spiegherò al piantone cosa sta accadendo. Sperando che sia un deterrente. La Ritmo scura non molla. Il semaforo in Porta Venezia è verde. Accelero controllando nello specchietto. Improvvisamente, come se mi avesse letto nel pensiero, il mio inseguitore desiste. La freccia sul lato destro della Ritmo lampeggia e prende per i bastioni di Porta Venezia. Arrivo in piazza San Babila. Sono solo e sollevato. La Ritmo è proprio sparita.
Torno verso Milano Due cercando di comprendere l’accaduto. Ricostruisco gli eventi. Il semaforo rosso di via Melchiorre Gioia. Il colpo di clacson di quello che sarebbe diventato una minaccia. “Non posso credere che sia tutto successo perché non sono scattato al verde “. Lo dico ad alta voce per farmi compagnia. Continuo a ricostruire. Il gesto di scuse. L’inserimento della prima marcia. La partenza. Proprio non…. Un sospetto si insinua velocemente: il gesto di scuse. Lo ripeto. Infatti! È stato il gesto!
La mano destra alzata. Tutte le dita stese tranne due: il medio e l’anulare. Provo a stenderle. Ci riesco a fatica. La CIDP sta progredendo e i muscoli estensori delle dita si stanno atrofizzando. Ho alzato la mano per scusarmi, invece gli ho mostrato le corna!
(1995, circa)