“Ricky, sei stanco?”. La domanda di Guido è legittima: sono appena caduto.
“Affatto”, rispondono mentre mi spazzolo la neve dai pantaloni colpendo la coscia con le mani.
“Dai ragazzi, riposiamoci un po’”. È Ugo a chiederlo. Dalla mia caduta sarà passato un minuto.
“Stai scherzando! Tu che hai bisogno di riposarti!? Non ci credo”. Sto sfottendo Ugo sfacciatamente esponendomi alle sue ritorsioni. Dei miei amici è in assoluto il più permaloso. Ma compensa con una grande generosità. Se entri nel suo cuore ti dà tutto.
Siamo a metà della pista nera di Folgarida. La neve è fantastica, dura e compatta. Gli sci tengono in modo magistrale. Nella vita di uno sciatore le giornate che rasentano la perfezione sono poche. Questa è una di quelle. È pomeriggio inoltrato, voglio farla un’altra volta. E non possiamo fermarci. Rischiamo di perdere l’ultima seggiovia per Marilleva.
“Ugo, non rompere. Abbiamo appena il tempo di farla un’altra volta”, polemizzo. “Non fare il coniglio”, cerco di fare leva sul suo ego con l’epiteto che ci lanciamo in università quando non ci presentiamo ad un esame.
“Ricky dai – interviene Guido – prendiamocela comoda così non ci stanchiamo”.
Ancora con la stanchezza. O sono ossessionati oppure…
“Ragazzi, mia mamma vi ha detto qualcosa?“
“Cazzo dici?” rispondono quasi contemporaneamente.
“Ok. Cosa vi ha detto?”
Venerdì sera, prima di partire, mamma si era appartata con Ugo e si era raccomandata che mi controllassero: con il “problema” che stava comparendo era meglio che non mi stancassi. Non si era rivolta a me. Aveva preferito vigilare da lontano. Aveva preferito non affrontarmi direttamente. Un contorsione che avrei capito molto tempo dopo. Due anni dopo la sua scomparsa. Voleva solo proteggermi dalla sua ansia, quella resa acuta e lacerante dall’incertezza. In fondo per la risonanza magnetica al cervello anch’io avevo cercato di proteggerla. Dovevano passare quasi 15 anni prima di scoprire quanto di lei fa parte di me.
(febbraio 1988, circa)