IL PRIMO BADANTE … ovvero una body guard

Maurizio. Così si chiamava il primo badante. Italiano. Sposato con una ragazza delle Filippine. Due figli piccoli. I suoi compiti erano stati spiegati con estrema chiarezza: assistermi e fare il domestico. In quel periodo assistermi era un esercizio semplice. In confronto ad oggi, quasi banale. Guidare la macchina, vestirmi: allacciare bottoni, infilare calze e scarpe. Ogni tanto il nodo alla cravatta. Che  avesse  capito le sue mansioni era una quasi certezza. La lingua e il suo curriculum garantivano un eccellente livello di comprensione. Maurizio era una guardia del corpo. E  seguiva le istruzioni con tremenda serietà. Troppa.
Aveva un difetto. Visibile. Senza possibilità di essere celato. Era zoppo. Non mi ricordo per quale motivo ma quando camminava e stendeva il ginocchio destro, la gamba gli scattava tesa verso l’esterno. Di difetti ne aveva un altro. Invisibile al colloquio. Fin troppo palese la prima volta che mi avrebbe accompagnato con la macchina. Per Maurizio la guardia del corpo non era una professione. Era uno stato mentale. Le sue azioni, i suoi comportamenti erano  intrisi degli atteggiamenti della body guard, quelli più ridicoli dell’immaginario collettivo.
Terzo giorno di lavoro.  Maurizio mi accompagna fuori in macchina per la prima volta. L’ho avvertito il giorno prima. La mattina si presenta in doppio petto grigio, camicia bianca, cravatta nera, Ray Ban a goccia con le lenti a specchio. Manca l’auricolare e la caricatura è completa. Sono sicuro che dietro una delle lenti una delle sopracciglia è alzata in una smorfia alla Clint Eastwood.
Arriviamo a destinazione. Via Santa Maria Fulcorina è in pieno centro storico. Stretta, a senso unico, senza marciapiedi. Pietre al posto dell’asfalto: la vecchia Milano. Maurizio parcheggia rasente il muro. Arresta il motore. Appoggia il braccio destro sullo schienale del mio sedile e si gira. Controlla attentamente cosa succede dietro di noi. In tutta la via siamo l’unica macchina parcheggiata. Anche perché parcheggiare non è permesso. Passano delle auto. Maurizio fa un respiro profondo. Calca gli occhiali sul naso. Si sta concentrando. Un ultimo controllo nello specchietto retrovisore. Mi comanda di non scendere. Sorpreso ubbidisco.
Apre la portiera e salta fuori. Zoppicando. Fa il giro della macchina dalla parte posteriore. Zoppicando. Ad ogni passo la gamba destra si stende tesa l’esterno. La mano sinistra di Maurizio appoggiata al suo fianco destro. Atteggiamento o l’abitudine a tenere ferma una pistola. Meglio non pensarci. Zoppicando, stendendo la gamba destra tesa verso l’esterno, raggiunge la mia portiera. La apre guardando a destra e a sinistra. Non sta  controllando. Sta cercando minacce. Dal fondo della via si sente un rumore. Sta arrivando una macchina. Maurizio fa un passo verso il centro della strada. E con un gesto autoritario ma discreto allo stesso tempo impone  al guidatore di fermarsi. Esegue diligentemente con un leggero stridore di pneumatici.
Maurizio tiene la portiera aperta. Scendo. Cammino verso il portone. Barcollando. Maurizio mi scorta. Zoppicando, la gamba destra che si stende tesa verso l’esterno ad ogni passo. Il conducente dell’auto aggrotta le sopracciglia perplesso. Trattiene una risata. Mi immedesimo in lui e scoppio a ridere. Un disabile assistito da un badante zoppo che si atteggia da  guardia del corpo. Ridicolo. Comico. O tutte e due. Continuo a ridere. Maurizio non fa una  piega. Continua a scortarmi.
L’ottavo giorno Maurizio non si presenta. Non mi avvisa. Nel pomeriggio lo raggiungo al telefono. Ha trovato un lavoro nella sicurezza personale. Dice.
(giugno 1997, circa)

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