Prima leggi: PAPÀ, IL FUNERALE
Se ne è andato come aveva vissuto: in conflitto con tutti e tentando di fare leva sui nostri sensi di colpa. Un anno prima papà era stato travolto da un evento che per lui aveva la portata di uno tsunami. A cinquantaquattro anni, mamma aveva deciso di tornare a lavorare. A dire la verità mi aspettavo che lo facesse prima. Noi figli eravamo fuori da mattina a sera. Con il marito non c’era dialogo. Stava appassendo. Papà non era in grado di capire i perché della mamma. Il suo unico orizzonte era che spettava a lui portare i soldi a casa. Per lui era così ovvio che non si capacitava della nostra incapacità di accettare la sua posizione. Non gli rimaneva che chiudersi nel suo classico silenzio ricattatorio.
Purtroppo per lui, in quel periodo la CIDP faceva un balzo. Peggiorando. Papà, di fronte al peggioramento del suo prediletto, era costretto al dialogo. E mise in atto una strategia diversa. La sera, quando rientravo dall’ufficio, mi chiamava nel superattico dove aveva lo studio. Uscivamo sul terrazzo dove incominciava a cercare di convincermi a convincere la mamma a smettere di lavorare. Ascoltavo. Spiegavo che la mamma stava facendo la cosa giusta per se stessa. E che per nulla al mondo avrei mai cercato di convincerla a fare il contrario. Ogni sera, quasi tutte le sere, papà replicava. Sempre in terrazzo. Lontano da orecchie indiscrete, quelle della mamma.
Dopo alcune settimane papà aveva finalmente compreso che avevo una posizione irremovibile. Ed era passato al ricatto. Non più i silenzi lunghi e grossolani. Questa volta aveva elaborato un’opzione più sottile. Sofisticata. Una sera, mentre mi stava ripetendo il discorso che mi raccontava da settimane, improvvisamente, si mise una sigaretta in bocca. Dieci anni dopo il suo infarto. Dieci anni dopo aver smesso di fumare.
“Cazzo stai facendo?”. Glielo domandai con aria di sufficienza. Come si parla a un bambino che sa benissimo che sta facendo una stupidaggine.
“Con tutto lo stress che la mamma mi sta provocando, almeno così mi rilasso un po’”. La voce puerile. La testa abbassata. Ma gli occhi erano rivolti verso l’alto. Scrutavano i miei per vedere se stavo abboccando.
“E il cuore?”.
Un sospiro. La risposta era tutta in quello sbuffo d’aria che tradotto in italiano significava solo: “pazienza…”.
“Non pensare minimamente di farmi cambiare idea con questi ricatti. Abituati. E se hai intenzione di ricattarmi con il suicidio fammi una cortesia. Lanciati da qui che con sotto la corsia dei box fanno otto piani… Almeno ci risparmi la lenta agonia”.
Imperterrito papà continuava a cercare di convincermi. Rientravo dall’ufficio. Mi chiamava dal superattico. Uscivamo sul terrazzo. Accendeva la sigaretta. E attaccava con la sua opera di convincimento dialettico come se fosse la prima volta. Imperterrito lo ascoltavo. Dal giorno in cui aveva acceso la sigaretta davanti a me per la prima volta, ascoltarlo era anche un modo di controllarlo. Per scrupolo. In fondo era sempre mio padre. Puntualmente lo deludevo: non avrei cercato di convincere mamma a smettere di lavorare.
Poi, un venerdì pomeriggio…
(Maggio 1992, circa)
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