Il suono è sordo. Lento. Esce a stento. Articolo la mandibola per far esplodere un urlo. Provo. La mandibola è impastata. Si muove a velocità ridottissima, come anestetizzata. Emetto un mugolio. Goffo e inutile. Ho paura. Nessun mi sentirà. Nessuno correrà ad aiutarmi. La paura diventa terrore.
La guardo fluttuare. È sopra ai piedi del letto, appena sotto al soffitto. La linea mi sta minacciando. Grigia. Cupa. Un alone poco più chiaro e tremolante la rende più inquietante. Si sdoppia e si ricompone. Ogni volta sussulto dallo spavento. Alzo il braccio per difendermi. Per allontanarla. Ci provo. Faccio una fatica immane. Il braccio sembra anestetizzato. Trattenuto da elastici. Continuo a emettere mugolii sordi e inutili. Tentativi frustrati per sfogare il terrore, di chiedere aiuto.
Sono consapevole dell’incubo. Tra le pieghe della paura una piccola parte di me compie uno sforzo sovrumano per mantenere il controllo. Ma non riesce ad avere il sopravvento. La paura per quella presenza, per la linea, domina. Entra sotto la pelle. Arriva fino alle ossa. E lì si annida.
Nonostante il tumulto raccapricciante che mi sta attraversando, noto una differenza. Quando sogno sono sano. Scrivo, corro, salto. Non ho sintomi. Adesso, in questo incubo, sono legato da maledetti elastici invisibili che mi danno l’illusione del movimento, della libertà. La metafora di quello che non sono ancora, che presto sarò. Le due facce del futuro. Il mio futuro. Quello al quale aspiro. Quello che sarà. Quello che temo, anzi mi terrorizza. L’incubo mi mette a nudo. Scopre la genuinità delle mie emozioni: speranza contro condanna. Sono più vicino a me stesso. Più consapevole. Pronto a continuare la lotta.
Poi tutto svanisce. La linea. Il terrore. Le urla sempre castrate.
Sono passati pochi mesi dall’inizio della psicanalisi.
(1997, circa)